La ricercatrice americana Jessie Serfilippi avanza una tesi shock sulla complicità di un ennesimo Padre Fondatore: nemmeno lui immune all’uso di schiavi.
Come spesso accade la Storia ci porta spesso all’attenzione importanti lezioni, e quella Americana non ha eccezioni. Dopo più di due secoli nell’America riunita dai Padri Fondatori ancora sentiamo presente e ingombrante la scure del razzismo e gli strascichi che porta con se. Solo nell’ultimo anno, ripensando alla nostra attualità, scorgiamo il movimento iniziato dalla morte dell’afroamericano George Floyd – Black Lives Matter – sino agli abbattimenti e danneggiamenti di statue di personaggi fino a poco prima celebrati e glorificati, come George Washington, Cristoforo Colombo e alcuni generali sudisti.
Secondo l’ultima ipotesi avanzata nel saggio della storica Jessie Serfilippi, uno dei padri fondatori, Alexander Hamilton che fu primo segretario al Tesoro, nonché ritratto sulla banconota da 10 dollari, “comprò e vendette schiavi”. La studiosa, affiliata alla Schuyler Mansion, la casa-museo ad Albany che appartenne al suocero di uno degli autori della Costituzione americana, col suo saggio ‘Una Cosa Odiosa e Immorale’ ribadisce l’ipotesi che “non solo Hamilton teneva in casa schiavi: il suo coinvolgimento nell’istituzione della schiavitù era essenziale alla sua identità personale e politica”.
Registra e porta in evidenza come tra le voci delle uscite economiche di tale Padre ci fossero voci che indicassero cifre sostanziose per “pagamento per due servi Negri acquistati per mio conto”, o anche un somma da pagare “per il valore di una donna” che la moglie Elizabeth aveva avuto dalla moglie di un altro ‘Founding Father’, scoperto e identificato poi come il quarto vicepresidente George Clinton.
In questo modo la studiosa Serfilippi, con libri documentazione dell’epoca e altro materiale storico, contraddice l’interpretazione del musical rap di Lin-Manuel Miranda che definisce Hamilton “un abolizionista rivoluzionario”, così come fortemente sostenuto dalla metà dell’Ottocento, in particolare attraverso la biografia scritta da John Hamilton e dedicata al padre e che ora “dovrà finire” in una lista di libri indesiderati. Le teorie e la documentazione utilizzate dalla studiosa non sono del tutto sconosciuti ai suoi colleghi ma, piuttosto, innovativi e di nuova concezione per come organizzati e posti al centro della sua teoria, motivo per il quale ha trovato gran interesse. Per Annette Gordon-Reed di Harvard, autrice di “The Hemingses of Monticello” sugli eredi afroamericani di Thomas Jefferson, l’argomentazione è “affascinante” in quanto mostra che “quasi tutti i padri fondatori furono implicati nella schiavitù”. Anche per Joanne Freeman di Yale, curatore degli scritti di Hamilton per la Library of America, il saggio della Serfilippi arriva in un momento cruciale, “in cui è essenziale per gli americani bianchi fare i conti con la legacy – lascito (ndr) strutturale della schiavitù in America”. Quindi, tra le tesi sostenuto si riscontra anche il fatto che la maggior parte dei Padri Fondatori riconoscevano la schiavitù come una violazione dell’ideale della libertà al centro della Rivoluzione Americana, ma dovendo tuttavia sostenere anche la difesa della proprietà privata, nonché un governo limitato che non compì decisivi passi verso l’abolizione della schiavitù.
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Per concludere, oggi grazie a Jessie Serfilippi si scopre non solo Hamilton offriva tranquillamente consigli legali a proprietari di schiavi, tra cui la cognata Angelica Schuyler Church, ma che nel suo libro dei conti e lettere alla famiglia sono chiaramente appuntante transazioni di compravendita e affitto di persone; uno su tutti è “il prestito” di un “Negro boy”, per la cifra di 100 dollari al vicino, pratica comune all’epoca che serviva anche a dimostrare come “il ragazzo fosse di sua proprietà”.