Il grido di protesta dei gestori delle palestre: “Siamo luoghi sicuri, fateci lavorare” [VIDEO]

Primo giorno di semi-lockdown in Italia. Oggi, alle ore 18.00, i bar e i ristoranti hanno tolto i loro tavolini, preparato l’ultimo caffè. Ad altri è andata anche peggio. Gestori di palestre, centri benessere, cinema e teatri non hanno neanche alzato la saracinesca. Ai microfoni di Meteoweek il grido di protesta di Mimmo, giovane gestore di una palestra, che oggi non ha riaperto e chissà quando potrà rifarlo.


Hanno abbassato le saracinesche, di nuovo, i proprietari di palestre, centri sportivi, centri benessere. Le hanno abbassate di nuovo oggi, dopo l’illusione di poter continuare con la loro attività che gli era stata data solo qualche settimana fa. Hanno riaperto, dopo il primo lockdown, dopo aver aspettato più di tutti gli altri, colpevoli dell’unico fatto di essere considerati fautori di attività poco importanti, in qualche modo rimandabili, sostituibili, evitabili. E invece, dopo pochissimo tempo dalla loro riapertura, oggi hanno chiuso di nuovo le porte, con la consapevolezza di poterle riaprire non prima di un mese.

Il 24 novembre, infatti, è la data di scadenza dell’ultimo Decreto, firmato a Palazzo Chigi da Giuseppe Conte domenica sera. Secondo disposizioni governative, infatti, palestre e centri sportivi dovranno rimanere chiusi fino a quella data. Eppure, visto l’andamento dei contagi da Coronavirus – oggi registrati ancora altri 17.012 casi – la sensazione è che la data potrebbe slittare ancora. Con l’ultimo Dpcm è arrivato anche lo stop a cinema, teatri, sale da ballo, sale di cultura. Decisioni drastiche, arrivate allo scadere della settimana di prova che era stata data loro per adeguarsi ai protocolli. Protocolli che – gridano oggi i gestori dei luoghi considerati propagazione di contagio – sono stati da sempre rispettati.

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Il loro grido è forte. La loro rabbia anche. I gestori delle palestre – insieme ai ristoratori e ai proprietari dei bar, costretti a chiudere alle ore 18.00 – cercano di capire cosa accadrà loro domani, vista la confusione, le illusioni, i rimandi. E poi, la paura di non farcela, di non poter riprendere, la noia, la perdita degli equilibri. “Ho rispettato tutti i protocolli, ma non è bastato”, grida Mimmo Ambrosca, solo 24 anni e un’attività avviata da qualche anno. La sua voce arriva direttamente dalla sua palestra di Battipaglia, in provincia di Salerno – che conta ad oggi ben 120 casi di contagio. Le palestre, ha spiegato, si sono organizzate con dei box di 6/7 metri quadri per ogni allievo. Inoltre, hanno fornito appositi prodotti per igienizzare gli attrezzi, procedura obbligatoria dopo ogni utilizzo. “Si lavora con un massimo di 8 persone per garantire il rispetto degli spazi e delle regole. Tutto è a norma”, racconta Mimmo.

Eppure, oggi non ha riaperto e il suo rammarico è evidente, mentre percorre quel suo spazio ottenuto con sacrificio e lavoro e che oggi vede a rischio. “Le regole sono rispettate al massimo, ci siamo adeguati a ciò che ci ha imposto lo Stato. Abbiamo limitato gli ingressi ad un massimo di poche persone”, dice il ragazzo, che parla anche a voce dei suoi colleghi che vivono, come lui, le medesime preoccupazioni. Oggi si ritrova a guardare a quegli sforzi fatti, a quelle modifiche, a quegli investimenti – più o meno importanti – effettuati con l’unico scopo di poter lavorare. Ciò che per il governo non è ritenuto necessario, per lui e come altri è fondamentale. “Questo è il mio lavoro, siamo stati la prima scelta da abolire perché si pensa l’attività fisica non è così importante, invece è importantissima per la propria salute”, prosegue Mimmo nel suo sfogo che rivendica il ruolo dell’attività sportiva per il mantenimento dell’equilibrio psico-fisico di ciascuno noi. Nella sua palestra, quindi, nessun contagio; ma tanta incertezza, tanto sconforto e una richiesta a Palazzo Chigi che oggi arriva a gran voce: “Fateci aprire, tuteliamo i clienti in sicurezza. Ma fateci riaprire”. Questo, e null’altro, chiedono coloro che oggi vedono la loro attività a rischio, il loro futuro anche. Perché non possono esistere lavori più indispensabili di altri: il lavoro è sempre.

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