Non si tratta di colmare vuoti, e nemmeno di continuare ed esistere senza resistere. Quello dell’alcool è un problema comune a molti.
In molti riesce a crescere questa curiosa voglia di evadere. Di sentirsi in qualche modo rinati, o forse addirittura nati per la prima volta.
Un nuovo mondo, dunque, e un mondo che si pensa di non conoscere e che spesso pare essere distante anni luce dalla nostra vita bella e ordinaria. E invece no: quello dell’alcool è un problema comune a molti. Non dico tutti. Dico molti perché è proprio così: bicchiere in mano, due chiacchiere al solito bar, e poi via con le risate.
Ci siamo mai chiesti cos’è che ci fa amare tutto questo? Cosa ci porta alla consapevolezza che quella – proprio quella cosa lì – sarà la nostra vita da quel momento in poi?
Mi ha incuriosito questa storia di Tiziano Ferro e della sua recente confessione. “A 34 anni ero un alcolista“, ha detto il cantante in una lettera pubblicata su ‘Il Corriere della Sera’, “Pensavo ‘non berrò’ e si spalancavano il buio, l’ansia, il terrore di tante ore di vuoto che mi separavano da chi non lo faceva, da chi non aveva bisogno di rifugiarsi nella dimensione parallela dell’alcol“.
Ho pensato a varie cose quando ho letto la sua storia sul giornale e tutte queste cose – ognuna di loro – iniziavano con la frase “Si sente solo perché…“.
Eppure io, una vita come la sua, la sognavo da bambina. Ricordo che mi rifugiavo sotto il letto e, nel buio più totale, non riuscivo nemmeno a chiudere gli occhi. La sognavo ad occhi aperti, una vita come la sua. Improvvisamente, mi vedevo ragazza e poi donna. Indossavo vestiti bellissimi, ed ero seduta sul sedile posteriore di macchine lussuose. Quella vita non la sognavo per i motivi che credete voi: la sognavo solamente per dare qualcosa agli altri. I miei soldi, agli altri. Il mio talento, agli altri. La mia immagine, agli altri.
Sognavo dunque spesso che sempre più persone mi vedessero per la persona che sarei stata: umile, nonostante tutto, e anche sincera, simpatica, perfetta, diversa.
Diversa da quella massa che credeva nell’apparire: io credevo in quello che c’è dentro e, sin da piccola, ho sempre pensato che tutto questo mio credere mi avrebbe un giorno aiutata a diventare un’altra. Dunque, una vita come quella di Tiziano Ferro, io la sognavo davvero. E forse la sogno tutt’ora.
E lui che ce l’ha? Lui che ce l’ha, adesso ha confessato tutt’altro: “Mi sento solo perché…“.
Solo: cosa significa essere soli?
“L’alcolismo ti guarda appassire in solitudine mentre sorridi di fronte a tutti”, continua Tiziano, “Mi svegliavo la mattina dopo con il telefono pieno di sms di gente che avevo incontrato e a cui avevo promesso qualcosa, che neanche ricordavo“. E ancora: “Diventi migliore sapendo di essere la versione peggiore di te stesso. E’ come barare a poker. Lo sai, vinci e te ne freghi, ma poi non hai vinto, non sei un campione, sei un baro“.
Così ho iniziato a pensare, e tutto questo mio pensare mi ha portato a raggiungere diverse consapevolezze: serve essere famosi? Non lo so più, so solo che trascorri tutta la vita a cercare di realizzare sogni, e quando finalmente si raggiungono, si manifestano nel corpo e nell’anima nuovi stati di inquietudine. E la vita che viviamo non ci basta più.
Non è stato di certo l’unico il grande Ferro ma, prima e dopo di lui, numerosi – anzi migliaia – personaggi del mondo dello spettacolo sono arrivati a questo stato: una sorta di infelicità che li accompagna, nonostante l’arte. E’ proprio così: nemmeno l’arte li salva più, nemmeno la bellezza in cui hanno sempre creduto da bambini. Nemmeno il mondo che volevano costruire, nemmeno i progetti, nemmeno la vita che sognavano.
Alcolismo, tossicodipendenze, dipendenze generali. “La vita fa schifo“, pensano molti di loro. E lo pensiamo anche noi, che non abbiamo niente. Ma loro che hanno tutto? Lo pensano ugualmente. Allora cos’è che non ci fa bastare quello che siamo riusciti ad ottenere?
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Credo che scatti un meccanismo nel nostro cervello che dica: “Basta! Da oggi, tu sei mio!“. Non è un Dio, non è la Terra ai nostri piedi e non è nemmeno il destino che ci parla. E’ semplicemente una rotella contenuta nei nostri neuroni più profondi che ci fanno abbandonare – forse per sempre – quel fugace momento di serenità che eravamo riusciti ad incontrare. Si tratta dunque di una leggera forma di depressione, che ci porta a lasciare tutto ciò che è oggetto, materiale, denaro, lusso. “E menomale…“, dico io, “i beni non ci portano a niente.. solo alla costruzione del male“.
E che dire dell’amicizia? Si incontrano persone che sorridono, altre che ridono ma non vorrebbero, altre che vogliono far ridere e ancora altre che fingono di ridere. E sono tutte intorno. E si vorrebbe abbandonarle, ma non si può. Così, sembra di essere ‘pieno‘ di affetto, di amore, di tutto quello che conta. Ma non è così. Sono solo autografi: tanti ed innumerevoli, e non hanno alcun valore.
Così ci si rifugia nella proprio camera d’albergo e si ricomincia a pensare: bicchiere in mano, una chiacchiera con sé stesso, e poi via con le risate.
Credo che sia quella la solitudine: il momento delle risate. Il mondo continua a ruotare, le persone a vivere, il telefono squilla, l’agenda si riempie, la vita non vorrebbe fermarsi. E lui è lì: in un angolo della stanza a ridere di gusto. Le pareti diventano grigie, e i suoi occhi colorati. E’ questo contrasto la solitudine: è un continuo cercare la luce ma, nonostante questo, restare nel buio. E’ una lotta incessante, la ricerca di ciò che conta, il guardarsi allo specchio e non avere volto, il diventare tutto e nessuno. E’ questo che li distrugge: il sentirsi soli, nonostante tutto. Psicologi, psicoterapie, gruppi aiuto, disintossicazioni: niente di tutto questo ha il potere di aiutarli. Ma solo il prenderli per mano e portarli nuovamente a una vita fatta di sostanza, in cui la natura è l’unico luogo da vedere. Non ci sono persone, eppure ci si sente gli esseri più ‘pieni‘ a questo mondo. E la felicità inizia a bussare.
Altrimenti, bicchiere in mano, nessuna chiacchiera, e via con le risate. Dentro, invece, tremare. Morendo lentamente.
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