Alcune persone sembrano in grado di non contrarre l’infezione da coronavirus pure restando in stretto e costante contatto con positivi. L’ipotesi del professore di genetica medica dell’università di Tor Vergata, Giuseppe Novelli: “La nostra ipotesi è che esistano geni che rendano alcune persone più protette dal contagio”.
C’è chi finisce in terapia intensiva, chi resta asintomatico e chi addirittura non viene contagiato. Di quest’ultima categoria fanno parte tutti coloro che, alla prova del tampone, restano negativi pur vivendo a strettissimo contatto con un positivo. A questo punto, molte sono le domande della scienza, che stanno cercando di rispondere a un quesito: perché alcune persone godono una sorta di protezione dal Covid? A cercare di rispondere alla domanda, lo scienziato Giuseppe Novelli, professore di genetica medica dell’università di Tor Vergata, uno dei più attivi genetisti italiani. Impossibile non recepire la stranezza di situazioni limite, di famiglie ammalate e positive per metà. Chi è rimasto negativo, come ha fatto? “La nostra ipotesi è che esistano geni che rendano alcune persone più protette dal contagio”, dice Giuseppe Novelli, uno dei più importanti genetisti italiani. Su Repubblica l’esperto avrebbe affermato: “Il mio dubbio, che sto studiando con i colleghi del Covid Human Genetic Effort, è che esista un gene che rende alcune persone resistenti al contagio. Finora avevamo considerato quattro categorie di contagiati: gli asintomatici, le persone con sintomi lievi, chi ha bisogno solo di ossigeno e chi di terapia intensiva. Può darsi che ne esiste una quinta: i resistenti”.
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Al momento, tuttavia, la teoria dell’esperto resterebbe allo stadio di ipotesi, anche a causa della difficoltà di portar avanti ricerche di questo tipo all’interno di quadro emergenziale a livello sanitario: un possibile esperimento necessiterebbe di persone molto esposte al virus, ad esempio il personale sanitario, da monitorare costantemente attraverso test sierologici e tamponi, che devono risultare negativi. Poi, una volta trovati gli individui da analizzare, i candidati “resistenti”, andrebbe chiesto loro di sottoporsi a un test del Dna. Insomma, è necessario mobilitare diverse risorse per sperimentare questo tipo di ipotesi. E proprio in questa direzione si stanno muovendo gli esperti interessati: “Abbiamo al momento pochi campioni, ma per questo tipo di studi serve una collaborazione internazionale, come quella del consorzio Covid Human Genetic Effort. Il mio collega Jean-Laurent Casanova, della Rockefeller University di New York, che è condirettore del consorzio, si è già mosso in questo senso”.
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Nel frattempo si procede anche ad individuare i “protettori” in grado di innescare questo meccanismo di protezione. Si pensa all’interferone, ad esempio, ingrediente importante della risposta immunitaria, oppure a una variante genetica blocchi la porta di accesso del virus, il recettore Ace2. Diverse le teorie in campo, che iniziano a raccogliere anche i primi timidi risultati: è già stato pubblicato uno studio su Science in grado di dimostrare come “le persone con una particolare variante genetica che ostacola la protezione di interferone tendono più spesso a ricadere nella categoria dei malati gravi”.