Alcuni recenti studi hanno tentato di far luce sul perché alcune persone si ammalano più gravemente di altre all’infezione da Covid-19. Ebbene, la causa sarebbe da ricercare nel profilo genetico dei pazienti affetti dalla malattia.
Dai risultati ottenuti dai moltissimi studi che sono stati sviluppati a partire dallo scoppio della pandemia di coronavirus, la causa dell’ampia varietà di reazioni all’infezione sarebbe da ricercare in parte anche ai geni, in particolare a quelli associati al sistema immunitario – oltre che ad effetti ancora poco noti. A spiegarlo sono stati tre lavori pubblicati su Science e Nature, che hanno preso in analisi il genoma dei malati più gravi di Covid-19, per capire se ci fosse qualcosa di specifico a rendere tale la loro condizione.
Dei dei tre lavori sono stati condotti da Jean-Laurent Casanova, ricercatore dell’Howard Hughes Medical Institute della Rockefeller University. Nelle ricerche portate avanti dal suo team, è stata presa in analisi l’espressione di 13 geni associati alla risposta ai virus influenzali, con particolare attenzione alla produzione di interferoni (ovvero quelle molecole che l’organismo utilizza con antivirali e antinfiammatori naturali). Come spiegato nel primo articolo dedicato, il 3,5% dei pazienti monitorati (23 su 659), presentava un difetto proprio nell’espressione di interferoni.
Un dato, questo, che ha spinto Casanova a lavorare nel secondo studio anche sull’autoimmunità. Era già noto, infatti, che in alcune malattie autoimmuni vengono prodotti autoanticorpi contro gli stessi interferoni. Per questo sono stati cercati gli autoanticorpi in tutti e 987 pazienti presi in analisi, e pare siano stati ritrovati in 101 pazienti – al 94% dei casi di sesso maschile.
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Il terzo studio, uscito su Nature, ha portato infine alla scoperta più interessante. Come mostrano i dati raccolti, infatti, a rendere alcuni pazienti più vulnerabili all’infezione da Covid-19 sarebbero i geni che appartenevano all’uomo di Neanderthal o di Denisovan. A scoprirlo sono stati i ricercatori della Human Evolutionary Genomics Unit della Okinawa Institute of Science and Technology Graduate University (OIST) giapponese insieme al team del Max Plank Institute di Leipzig, in Germania, guidati da Svante Paabo, uno dei massimi esperti mondiali di paleogenetica e paleoantropologia.
Il maxi gruppo di esperti ha dunque concentrato l’attenzione sul cromosoma 3, analizzando il profilo genetico di oltre 3.100 malati con Covid 19 in diversi livelli di gravità. Durante gli studi è stato allora notato che chi possiede un lungo frammento (di poco meno di 50.000 basi) ereditato dagli antenati neanderthaliani, o in particolare una tra le sue 13 possibili varianti, è destinato a sviluppare una malattia più grave rispetto agli altri. Lungi dall’essere un lavoro finito, gli studi stanno ora proseguendo con l’intenzione di capire perché questo frammento di DNA influenzi la sensibilità all’infezione da Sars-CoV 2 e come poter intervenire nei pazienti interessati.
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