Secondo quanto riportato nel loro studio, i ricercatori del Gemelli hanno scoperto una possibile soluzione al rigetto post trapianto di rene. Avanzate nuove terapie con farmaci già disponibili in commercio.
La scoperta viene dai medici e dai ricercatori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma, e della Fondazione Policlinico universitario Agostino Gemelli Irccs. Secondo quanto viene riportato dall‘Adnkronos, infatti, sarebbe stato scoperto “un meccanismo fondamentale nello sviluppo del 70% delle reazioni di rigetto dei trapianti di rene“. Lo studio è stato condotto in collaborazione con gli atenei di Bari, Foggia e Padova, ed è stato pubblicato sul “Clinical Journal of the American Society of Nephrology” insieme a un editoriale di commento. Il risultati ottenuti dal gruppo di ricerca e analizzati nell’articolo potrebbero dunque aprire la strada a nuove terapie anti-rigetto, attraverso l’uso di alcuni farmaci che risultano già in uso clinico con altre indicazioni.
La lotta al rigetto con i farmaci già disponibili in commercio
A guidare il team di studiosi è stato Giuseppe Grandaliano, professore ordinario di Nefrologia alla Cattolica-campus di Roma e direttore dell’Unità operativa complessa di Nefrologia del Gemelli. Come spiegato nell’articolo, la sua squadra di ricercatori ha osservato che “nel corso della forma più comune di rigetto del rene trapiantato interviene una sorta di reazione allergica all’organo sostituito, associata a una aumentata produzione di interferone-alfa”. In tal senso, la ricerca si è quindi mossa cercando di far luce sul rigetto anticorpo-mediato nel trapianto renale.
Come spiega il professor Grandaliano ai giornalisti, si tratta di una forma rigetto che, di fatto, costituisce “la causa più frequente di perdita del rene trapiantato“. Lo studio suggerisce quindi “nuovo modello patogenetico che potrebbe aprire la via a nuovi approcci terapeutici. Al momento, infatti, non c’è alcuna terapia codificata o approvata dalle autorità regolatorie”.
Per quanto riguarda i pazienti operati in Italia, la percentuale di fallimento del trapianto di rene a 10 anni è di circa il 40%. Fallimento che nella metà dei casi portano alla “morte del paziente con un trapianto funzionante, a seguito di complicanze o della malattia renale cronica (patologie cardiovascolari) o associate alla terapia immunosoppressiva (neoplasie e infezioni)”. L’altra metà degli insuccessi, invece, è legata al “rigetto dell’organo trapiantato o a una ricaduta nel nuovo organo della malattia che aveva portato il paziente in dialisi”. Dai dati, poi, emerge che il rigetto anticorpo-mediato “rappresenta circa il 70% delle cause di perdita di funzione del rene trapiantato”.
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE
- Migranti, nuovo piano Ue: “Alleggeriremo il peso sui Paesi di primo ingresso”
- Ruby ter, Berlusconi chiede rinvio del processo per “impedimento per Covid”
Il meccanismo alla base di questa forma di rigetto è rappresentato dalla produzione di anticorpi di tipo IgG (immunoglobuline G) che vengono rivolti contro l’organo trapiantato. Lo studio del team di ricerca, allora, “partendo da un’analogia tra rigetto anticorpo-mediato e il danno renale in pazienti con lupus eritematoso sistemico (una patologia autoimmune in cui il danno renale è anticorpo-mediato) ha dimostrato che, come nel lupus, anche nel rigetto cronico anticorpo-mediato oltre alle IgG sono presenti a livello renale anticorpi della classe IgE che sono in grado di innescare una sorta di reazione allergica all’organo trapiantato attraverso l’attivazione di mastociti e basofili, cellule immunitarie il cui ruolo non era ben chiaro nel corso del rigetto del trapianto renale”.
Come spiegato allo specialista, nello studio è stato “dimostrato che questo fenomeno, così come nel lupus, è strettamente associato a un’aumentata produzione di interferone alfa”. “La nostra osservazione ha anche una potenziale ricaduta terapeutica. Infatti, questa nuova via di danno dell’organo trapiantato potrebbe essere il target di farmaci già disponibili in commercio, che agiscono bloccando l’azione dell’interferone alfa“, precisa infine il professore Giuseppe Grandaliano.