Due volte il coronavirus ma è improbabile re-infettarsi. Forse non sono mai guariti

È altamente improbabile ammalarsi due volte di Covid. A dimostrarlo è la vicenda di un peschereccio americano, raccontata dai virologi della Washington University sul Journal of Clinical Microbiology.

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Dei 122 membri dell’equipaggio, 120 erano stati sottoposti a un tampone e al test sierologico, tutti negativi al virus, ma tre avevano sviluppato gli anticorpi. Poi la partenza, l’infezione, e al rientro la sgradita sorpresa: 104 di loro erano tornati malati. Soltanto i tre nei quali erano stati trovati gli anticorpi non lo avevano contratto di nuovo e ciò dimostra che questi ultimi potrebbero essere neutralizzanti. Eppure ci sono state segnalazioni di possibili re-infezioni: quella del 33enne di Hong Kong e quella del 25enne del Nevada. Come mai? Secondo esperti di Harvard, si tratterebbe, per lo più, di episodi singoli non ben documentati, e quindi, in definitiva, di altro, e anche per coloro per cui sono disponibili più dati, ancora si dovrebbe aspettare a parlare di vere e proprie re-infezioni. Il Covid-19, a quanto si sa oggi, si comporta in modo simile a quasi tutti gli altri virus, e cioè induce una risposta complessa, che potrebbe proteggere il corpo da eventuali contagi futuri. Ma sull’immunità ancora ci stiamo interrogando.


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Le re-infezioni potrebbero essere persone mai del tutto guarite

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Anche se la produzione di anticorpi specifici declina nel tempo, ci sarebbe sempre quella dei linfociti T specifici e dotati di memoria, a salvare la situazione. Alcuni casi di apparenti re-infezioni potrebbero essere persone mai del tutto guarite, nelle quali il virus si è nascosto in qualche tessuto ed è rimasto quiescente. L’Ebola funziona nella stesso modo e lo stesso accade con i ceppi influenzali. Il ragazzo di Hong Kong, dopo una prima infezione ne avrebbe sviluppata un’altra, asintomatica, causata da un Sars-CoV 2 di ceppo diverso dal primo. Così malato di un “coronavirus diverso” si sarebbe difeso: il suo sistema immunitario avrebbe evitato il peggioramento dei sintomi reagendo in modo appropriato al secondo virus. La presenza di immunità specifica, infatti, non impedisce al virus di penetrare nell’organismo. Molto meno chiaro sarebbe invece il caso del venticinquenne del Nevada, la cui storia è stata pubblicata in anteprima su Lancet, perché in quel caso la seconda infezione sarebbe stata sintomatica, con polmonite interstiziale, quindi in pratica, peggiore della prima. L’analisi dei genomi virali ha mostrato che il secondo virus è una versione del primo con alcune mutazioni: potrebbe trattarsi di una rapida evoluzione genetica di un virus che in realtà non se n’era mai andato ma il caso è ancora da chiarire. Va ricordato che in un altro studio, pubblicato sempre su Lancet e incentrato sulle mutazioni, l’8% dei pazienti aveva, nello stesso momento, il tipo wild e un tipo mutato. La questione per certi aspetti rimane ancora aperta.

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