Il quotidiano dei vescovi attacca il Ministero della Salute: le linee guida sulla Ru486 – che coinvolgono i consultori – andrebbero contro il dettato costituzionale.
In un’analisi dal titolo “Consultori e donne, la legge parla chiaro”, il quotidiano Avvenire – il giornale della Conferenza Episcopale Italiana – analizza le linee guida che il Ministero della Salute ha previsto per la gestione della pillola abortiva Ru486 e lancia una accusa pesante: le norme, nella parte che prevede il coinvolgimento dei consultori nelle procedure, sarebbero incostituzionali. “Continua a suscitare perplessità – si legge su Avvenire – la decisione ministeriale di coinvolgere i consultori familiari nella pratica abortiva. La rete consultoriale nasce con la
finalità esattamente opposta: fornire un’alternativa alle donne
che pensano di trovarsi costrette dalle circostanze più varie a
spegnere in grembo la vita del proprio bimbo – spiega infatti -.
È quanto emerge dalla legge 405 del 1975, che ha istituito i
consultori”. Secondo Avvenire “la sua prospettiva risulta ben chiara fin dall’articolo 1, che tra gli scopi di queste strutture indica
‘la tutela della salute della donna e del prodotto del
concepimento'”. “Attenzione” prosegue il giornale della Cei: “in tutti gli 8 articoli di cui si compone il testo l’interruzione di gravidanza non è mai prevista: si parla solo di contraccezione”. “È vero – continua -: la prima legge che ha consentito, in un numero di casi (almeno formalmente) ristretto, l’interruzione volontaria della gravidanza è la 194 del 1978, varata dunque 3 anni dopo quella che ha istituito i consultori. Ma è altrettanto innegabile come anche questa seconda norma non abbia inteso chiedere la collaborazione di queste strutture per la soppressione del bimbo nel ventre della gestante. Anzi”.
“I consultori familiari – si legge all’articolo 2 – assistono
la donna in stato di gravidanza (…) contribuendo a far
superare le cause che potrebbero indurre la donna
all’interruzione della gravidanza“. “Proprio per raggiungere
questo fine – spiega ancora Avvenire – la norma dispone che le
stesse strutture ‘possono avvalersi (…) della
collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e
di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la
maternità difficile dopo la nascita’”. “L’obiettivo pratico
sembra ben chiaro – aggiunge -: dal momento che le risorse
economiche, anche allora, non bastavano a rimuovere i problemi
in cui versavano e versano le gestanti, si dava e si dà la
possibilità che i consultori si avvalgano della grande rete del
volontariato, come quello grande e generoso che anima i Centri
di aiuto alla vita”. “A fugare ogni dubbio circa le finalità di
queste strutture – scrive ancora il quotidiano cattolico -,
l’articolo 5 della stessa legge 194/78 dispone che esse, quando
si trovano innanzi una donna che chiede l’interruzione
volontaria della gravidanza, ‘hanno il compito in ogni caso (…) di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta (…) di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione di gravidanza’”. Allo stesso modo, “qualora la donna si rivolgesse al proprio medico, questo dovrebbe informarla «sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di
carattere sociale cui può fare ricorso, nonché sui consultori e
le strutture socio-sanitarie”. “E quand’anche tutto ciò fallisse, non restando altro se non la soppressione del feto”, conclude Avvenire, “la legge vietava e vieta al consultorio di fare da sé: l’aborto, infatti, può essere effettuato solo da una (diversa) struttura autorizzata. Alterare questa disciplina con una semplice circolare – come fanno le nuove linee guida del Ministero della Salute che disciplinano il ricorso alla pillola abortiva -, e non
attraverso una modifica parlamentare della legge vigente,
darebbe vita a una violazione della Costituzione”.