Le parole di Davide Capello, ex calciatore in serie A con il Cagliari, ha raccontato di quella tragica mattina sul Ponte di Genova: «Non lo dimenticherò mai, la ferita è profonda»
I ricordi di quel giorno che ancora lo scavano dentro «Dopo due anni la vita, apparentemente, torna quella di prima. Si ricomincia a lavorare, a uscire con gli amici, alle abitudini quotidiane. Ma non è facile, il trauma è sempre vivo e diventa parte di te. Io di quel giorno ricordo tutto, quella scena è conficcata nella mia mente. E il pensiero, troppo spesso, torna al 14 agosto 2018». Quella drammatica mattina Davide Capello, 36 anni, vigile del fuoco, in passato giocatore in serie A con il Cagliari e ora allenatore dei portieri dei giovani del Genova, era uscito di casa per andare a ritirare la tessera del tifoso. Per farlo ha dovuto affrontare il ponte Morandi, collassato proprio mentre lui passava all’altezza della pila numero nove. «Non lo dimenticherò mai, la ferita è profonda. Non so se riuscirò mai a percorrere il nuovo viadotto. Adesso, a dire il vero, non voglio nemmeno vederlo. Figuriamoci attraversarlo».
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Il racconto di quel giorno
«Era una mattinata terribile, pioveva a dirotto, tant’è che era stata diramata anche un’allerta meteo. Poi le condizioni sono migliorate e ho deciso di andare a Genova a ritirare la tessera, perché la settimana successiva sarebbe ricominciato il campionato. Quando sono uscito dalla galleria che immetteva sul ponte era tutto normale, non c’erano segnali né avvisaglie della tragedia imminente. Niente calcinacci che si staccavano o vibrazioni particolari. Nel momento in cui sono arrivato all’altezza del pilone numero ho sentito un rumore sordo, ho visto dei detriti che cadevano dall’alto e il pezzo di strada davanti a me che precipitava. Le macchine volavano nel vuoto, sembravano dei fogli di carta sparpagliati dal vento»
Come si è salvato Davide
«Il primo istinto è stato quello di frenare, sperando di fermarmi sul ciglio. Ma a un certo punto la strada sotto di me ha ceduto e sono precipitato. È durato pochi secondi, un tempo comunque più che sufficiente per rendermi conto che sarei morto».
Protetto da una bolla di cemento
«Si è infilata in un’intercapedine tra la strada e i detriti, una specie di bolla di cemento che mi ha protetto. Non riuscivo ad afferrare il cellulare, il bluetooth dell’auto però funzionava ancora, così ho chiamato i soccorsi, poi mio padre e la mia fidanzata. Sono rimasto lì sotto per una ventina di minuti, finché ho sentito le prime voci. Erano due poliziotti che cercavano di tirarmi fuori ma non riuscivano a raggiungermi, così ho cominciato a scavare e sono uscito sulle mie gambe. Il fatto di essere vigile del fuoco probabilmente mi ha aiutato, anche a mantenere un po’ di sangue freddo, a non farmi prendere dal panico».
Un incubo senza fine, i risvegli nel cuore della notte
«Me la sono cavata con problemi alla schiena, nulla se paragonato al disastro. Ma dentro di me i segni sono ben più profondi. Sono trascorsi due anni, ma capitano sere in cui faccio fatica ad addormentarmi o mi sveglio all’improvviso nel cuore della notte. Tra noi sopravvissuti non ci siamo mai incontrati, io almeno non ho mai voluto farlo: per me è un modo per guardare avanti, per voltare pagina».
Il nuovo ponte
«Non l’ho ancora visto e non ho seguito le tappe della ricostruzione perché ogni volta per me è una ferita che si riapre. Quel viadotto è una cicatrice che si fa sempre sentire. Non so nemmeno che emozioni potrei provare nel rivederlo, mi auguro solo che l’inaugurazione non si trasformi in una festa perché c’è ben poco da festeggiare. Il dolore di chi ha perso una persona cara resta immutato. Per me passare di là e ricordare sempre ciò che è successo è una tragedia, non so se lo riattraverserò ancora né se andrò a vederlo. Dicono che il nuovo viadotto sia il simbolo della rinascita, ma il fallimento è stato il crollo del vecchio ponte. E nulla potrà alleviare tanto dolore».
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