“Sono stato torturato dai carabinieri di Piacenza. Ora ho paura di morire”

Parla Hamza Lyamani, il 26enne marocchino che, con le sue dichiarazioni, ha contribuito a svelare cosa avvenisse davvero nella caserma Levante. 

«Lo vedi il naso? Me l’hanno spaccato due volte. Mi hanno pestato, riempito di botte». Inizia così, con questa dichiarazione, l’intervista rilasciata da Hamza Lyamani, il 26enne marocchino, ma piacentino di adozione, che con le sue accuse ha messo nei guai i carabinieri della stazione di Levante.  «Ma io non vivo più. Bevo e non dormo la notte. Ho fatto bene? Con la paura che mi uccidano» racconta Lyamani, che teme per la sia vita dopo aver denunciato i carabinieri di Piacenza. Hamza ha 26 anni. È nato in Marocco ma è piacentino al 100%: parla il dialetto alla perfezione, ha studiato lì, è cresciuto lì. E’, di fatto, il grande accusatore di Peppe Montella e dei carabinieri della caserma Levante. Ha avuto il coraggio di denunciare una situazione al limite, ma adesso teme per la sua incolumità: tanto grande era il potere di quel manipolo di carabinieri corrotti, da spaventarlo anche se sono tutti in carcere. «Montella l’ho conosciuto da ragazzino, faceva il preparatore atletico a calcio. Non sapevo fosse carabiniere» racconta il giovane. Che fosse un militare lo scopre nel 2016, dopo essere stato fermato dai carabinieri per possesso di hashish. «Mi affidano in prova con obbligo di firma alla Levante. Entro e trovo Montella: “Se mi dici chi spaccia ti faccio venire a firmare quando vuoi”».

Hamza Lyamani

A quel punto nasce il rapporto, che porterà Hamza all’inferno:
«Non toccavo cocaina, lui inizia a pagarmi con fumo e bamba. Chi doveva aiutarmi mi ha fatto precipitare ancora di più…». La collaborazione del 26enne permette ai carabinieri della Levante di realizzare molti arresti: «Almeno trenta. Me ne vergogno. Perché poi venivano pestati a sangue e incastrati. Si spezzava la droga, l’accusa diventava spaccio. Li ho aiutati anche io, in caserma». C’è anche il ricordo, orribile, delle torture che venivano inflitte a chi veniva arrestato: «Ricordo le urla disumane di un poveretto che era nella “stanza della terapia”, dove tenevano la droga sequestrata. Lo stavano picchiando. E in ufficio si sentiva benissimo. C’era anche il comandante». Una conoscenza che diventa quotidiana: arresti, droga, violenza, festini all’interno della caserma. Fino a quando Hamza non decide di uscirne: conosce una ragazza, vuole liberarsi da quel vissuto criminale. Ma uscire da quel giro no si può. Montella inizia a stargli con il fiato sul collo: lo pedina, lo arresta, iniziano le torture. La svolta arriva quando il giovane decide di confidarsi con il maggiore Rocco Papaleo, in servizio a Cremona ma precedentemente operativo a Piacenza.  «Gli ho raccontato e mi ha detto: “scappa o ti ammazzano, ti buttano nel Po” » racconta Hamza. «Era già a Cremona, ma mi fidavo solo di lui. Aveva arrestato i poliziotti anni prima». Da quel momento in poi i fatti sono noti: parte l’inchiesta, i carabinieri vengono arrestati, la storia diventa di pubblico dominio. Resta da capire perchè: cosa spinge un carabiniere a scegliere di tradire in questo modo i valori a cui avrebbe deciso – in teoria – di consacrare la sua vita professionale. Hamza Lyamani ha la sua risposta: «Per i soldi. Il potere. Non l’ho mai visto drogarsi. Ma così era considerato un bravo carabiniere, aveva amicizie importanti. Con le ragazze si spacciava per politico».

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