Filippo Graviano, boss della mafia palermitana, si è espresso così con i compagni di cella qualche settimana fa. “Il ministro sta facendo il suo lavoro”, avrebbe detto. Il riferimento è alla scarcerazione dei boss durante l’emergenza Covid.
Una chiacchierata tra le più comuni, durante l’ora d’aria in carcere, diventa spunto per un vero e proprio fatto di cronaca. Il protagonista principale è Filippo Graviano, noto boss mafioso condannato per le stragi del 1992 e dell’anno successivo. Lo scorso 11 maggio, Graviano si era messo a commentare con i compagni di cella la crociata che Massimo Giletti e Nino Di Matteo stavano combattendo in quei giorni. Al centro della loro battaglia mediatica c’erano temi come la scarcerazione dei boss durante l’emergenza Covid e la mancata nomina del magistrato a capo del Dap.
Il dialogo tra il boss mafioso e Maurizio Barillari, noto esponente della ‘ndrangheta, è finito nell’edizione odierna di Repubblica. Graviano parlava ad alta voce, come a voler farsi sentire dagli agenti della polizia penitenziaria che stavano sorvegliando la zona. “l ministro fa il suo lavoro e loro rompono il ca… Quel Giletti e quel Di Matteo stanno scassando la minchia”. Poche parole ma senza dubbio chiare, quelle espresse dal boss della mafia contro il conduttore e il magistrato. A rivelare tutto è stato Lirio Abbate, in un libro che da oggi è in tutte le librerie.
Il testo di Abbate s’intitola “U Siccu — Matteo Messina Denaro: l’ultimo capo dei capi” ed è edito da Rizzoli. Ma non è solo Filippo Graviano a scagliarsi contro la crociata condotta da Giletti e Di Matteo durante le puntate di “Non è l’Arena”. Il fratello Giuseppe, altro boss condannato al 41 bis, se la prendeva anche con lo stesso Abbate, ospite della trasmissione in quei giorni. E in una lettera alla moglie Rosalia Galdi, scriveva: “Purtroppo questa è l’Italia, politici e magistrati litigano per i loro imbrogli e fanno leggi restrittive, sempre per celare i loro malaffari, contro chi è stato ristretto, tipo la polemica di questi giorni, altresì hanno messo, come di consueto, il mio nome che non c’entra niente”.
Una vera e propria guerra verbale senza quartiere, quella che i boss della mafia stavano muovendo contro il conduttore e il magistrato. Nel libro di Abbate si legge che “la sera del 10 maggio, quasi tutti i detenuti al 41 bis erano davanti al televisore”. A renderlo noto sono stati gli agenti della polizia penitenziaria, i quali hanno reso noti alcuni insulti a Rita Dalla Chiesa, figlia del prefetto Paolo ucciso nel 1982 e ospite fissa di Giletti. E le lamentele dei boss erano legate al fatto che, anche grazie a ciò di cui si discuteva in trasmissione, Bonafede ricorse al decreto per riportare in carcere i detenuti più pericolosi.
Ma più in generale, al di là degli attacchi a Di Matteo e Giletti, nel libro di Abbate si leggono alcuni passaggi fondamentali. E il protagonista principale è Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande latitante di mafia. Si legge: “La mafia è ancora viva anche se dietro le sbarre e i suoi uomini tentano in ogni modo di uscire, di comunicare con l’esterno. E all’esterno il faro è solo uno, l’unico ad avere il potere e la caratura criminale per fare da punto di riferimento: Matteo Messina Denaro”. Il boss di Castelvetrano, nel Trapanese, ha a sua disposizione “reti politiche, imprenditoriali e criminali che lavorano per lui”.
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E Lirio Abbate ha riportato alla luce anche il primo verbale di interrogazione del boss latitante. “Sono il quarto dei sei figli di Messina Denaro Francesco — aveva detto ai poliziotti — l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi. Lui ha iniziato come campiere presso i terreni della famiglia D’Alì Staiti e tre anni fa sono subentrato io”. Ma da lì in poi, la storia sua e della mafia sarebbe cambiata in maniera radicale.
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