Joe Biden è il candidato democratico in corsa per la Casa Bianca. La sua priorità i beni e servizi made in Usa: un modo per convincere gli incerti
Più tasse sui ricchi e sulle imprese. Un ritorno agli accordi di Parigi sul cambiamento climatico, ma senza Green New Deal. Una politica dell’immigrazione umana, ma non le frontiere aperte all’insegna del “venga chi vuole”.
Joe Biden promette agli elettori per conquistare la Casa Bianca, un programma socialdemocratico. Ma il resto del mondo, non s’illuda: un presidente Biden sarebbe più civile ma non meno protezionista di Donald Trump. Per gli europei dovrebbe cambiare qualcosa: Biden è un atlantista e vorrà coinvolgerli in una coalizione contro la Cina, anziché punirli coi dazi trattandoli con la stessa durezza inflitta a Pechino.
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Se Biden vincesse le elezioni del 3 novembre, che cosa cambierebbe nella politica economica americana? La risposta è arrivata dallo stesso candidato, che ha parlato in Pennsylvania: un uso energico e determinato della spesa pubblica e delle normative su appalti e commesse statali, per favorire sistematicamente il made in Usa. Con l’aggiunta di una politica industriale attiva, diretta a promuovere la competitività americana soprattutto nelle tecnologie avanzate. Nulla di troppo diverso da Trump, il messaggio di Biden è che la sua politica sarebbe più efficace nel promuovere una rinascita della potenza economica americana.
Secondo quanto previsto dal programma di Biden, dovrebbe esserci, durante l’arco del mandato presidenziale, un aumento di 400 miliardi di dollari negli acquisti di prodotti e servizi made in Usa da parte della pubblica amministrazione; più un fondo di 300 miliardi a sostegno della ricerca e sviluppo.
Biden vorrebbe inoltre riesumare un programma dell’era di Barack Obama che si chiamava “Buy American”: una clausola di preferenza nazionale inserita da Obama negli “stimulus package” (manovre di sostegno della crescita) varati dopo la crisi del 2009. Biden vorrebbe rendere ancora più stringente l’applicazione della regola “compra americano” per tutte le spese del governo federale.
Primo, il segno della politica fiscale tornerebbe ad essere più perequativo, spostando il peso dei maggiori prelievi sulle imprese e sugli alti redditi. Secondo, verrebbero rafforzati i diritti dei lavoratori e il ruolo dei sindacati. Terzo: Washington tornerebbe alle politiche ambientaliste dell’era Obama, senza abbracciare però alcuni obiettivi degli ambientalisti come il divieto del fracking.
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Al momento, secondo i sondaggi, il candidato democratico sarebbe in netto vantaggio sul presidente, con un’unica eccezione: quando gli elettori vengono interrogati su chi sia più efficace nel governare l’economia, Trump è ancora in testa. Una parte dello scontro fra lui e Trump avverrà proprio sul protezionismo. Il presidente ha sempre associato Biden ai trattati di liberalizzazione degli scambi, la cui firma è stata seguita da un’accelerazione nelle delocalizzazioni, uno smantellamento di fabbriche, la perdita di posti di lavoro a vantaggio di Paesi come la Cina e il Messico. Negli ultimi anni però Biden, come gran parte dell’establishment democratico, ha indurito le sue posizioni sul commercio estero in particolare sulla Cina.
La sanità è un piatto forte per Biden, ha un approccio graduale che aumenti il ruolo dello Stato senza dichiarare guerra al capitalismo sanitario privato. Del resto non bisogna credere che la pandemia abbia convertito la maggioranza degli americani alla superiorità del modello europeo. Tra i temi sui quali Biden è atteso al varco, l’atteggiamento verso Big Tech. L’attuale presidente pur avendo rapporti burrascosi con alcuni protagonisti della Silicon Valley, li difende dalle digital tax europee o dalle offensive dell’antitrust di Bruxelles. Biden dovrà dire da che parte sta.
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