Sono tre le indagini in Italia in cui si indaga per il reato di tortura ai danni di alcuni detenuti. Il covid ha fatto luce sulle carenze e sulle criticità del sistema penitenziario italiano.
Sono dati allarmanti, quelli contenuti nella relazione al Parlamento da parte del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale. “A conoscenza del presidente del Garante nazionale, Mauro Palma, che, in quanto persona offesa nei procedimenti penali che riguardano ipotesi di reato ai danni di persone private della libertà, riceve informazioni sull’avvio e sullo stato di tali procedimenti; tre procure d’Italia, quella di Napoli, quella di Siena e quella di Torino, hanno aperto ognuna un procedimento penale – è detto nella relazione – ravvisando il delitto di tortura in atti di violenza e di minaccia compiuti da operatori della polizia penitenziaria nei confronti di persone detenute”. Queste le parole che hanno messo sotto accusa alcuni penitenziari italiani che hanno violato la legislazione penale. La norma è stata introdotta nel luglio 2017 ed è prevista dall’articolo 613-bis del codice penale.
Carceri: tanti problemi da risolvere
L’emergenza sanitaria ha reso note le diverse problematiche, oltre quella appena descritta, presenti nelle carceri. Tra tutte: la mancanza di spazi destinati alle necessità sanitarie, le precarie norme igienico-sanitarie e il sovraffollamento diffuso. Mauro Palma afferma che la situazione richiedeva al tempo della diffusione del virus, estrema tempestività nei processi, ma che nei fatti è stata risolta con due soluzioni: la riduzione delle persone detenute e la prevenzione all’ingresso nelle carceri, per non far partire una lista di contagi. Vi è stata infatti una consistente riduzione delle presenze di detenuti nei penitenziari, “scendendo da 61.230 a 53.527, con una riduzione che supera le 8 mila unità”, sottolinea il Garante parlando del sovraffollamento. Molti episodi in passato sono stati oggetto di giuste polemiche e proteste e l’Italia è stata più volte richiamata dall’Unione europea per le condizioni disumane dei carcerati.
Il 16 gennaio 2001 si suicidò nel carcere di Messina, Antonio Citraro. La Corte europea ha condannato oggi il governo italiano al risarcimento danni nei confronti dei familiari che hanno sostenuto per anni l’inadeguatezza dell’istituto penitenziario. Dopo la morte dell’uomo, il tribunale di Messina aveva rinviato a giudizio il direttore della casa circondariale della città siciliana e alcuni agenti della polizia penitenziaria, accusati di omicidio colposo. Alla fine, la Corte di Cassazione ha escluso la responsabilità degli agenti imputati. Così i genitori di Citraro si sono rivolti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, sostenendo il negligente comportamento delle autorità italiane per la salvaguardia dei carcerati. L’istituto penitenziario è stato accusato di aver sottovalutato il rischio reale che Citrato potesse arrivare a commettere atti di autolesionismo, vista la condizione in cui si trovava. La Corte europea contesta all’Italia di non adottare sempre le misure di protezione utili alla vita serena dei detenuti, un principio che invece deve essere assolutamente mantenuto. Il trattamento all’interno della struttura deve essere umano a prescindere dai delitti commessi dal carcerato. La famiglia di Citraro avrà diritto ad un importante risarcimento da parte della struttura italiana quanto prima e i problemi all’interno delle strutture rimangono ampiamente discussi.