Oms, i documenti segreti: “La Cina ha falsificato i dati”

Rivelazione esplosiva dell’Associated Press: l’OMS sarebbe molto critica nei confronti della Cina, sopratutto nella condivisione dei dati sul coronavirus.

Oms critica nei confronti della Cina, sopratutto per la mancanza collaborazione nella condivisione dei dati sul virus. Lo rivela l’Associated Press: insomma, l’Organizzazione Mondiale della Sanità è tutt’altro che una “organizzazione filo cinese” come aveva accusato Trump. L’attacco del presidente degli Stati Uniti arrivò dopo gli elogi pubblici fatti a gennaio dall’Oms a Pechino per la “trasparenza nella gestione del Covid”: ma la realtà era un’altra. Quei complimenti sarebbero stati una sorta di operazione diplomatica per provare ad ottenere maggiori informazioni sull’epidemia. Insomma, un “trucco” per spingere la Cina a collaborare di più. Ma in verità i funzionari dell’Oms si sarebbero lamentati molto e duramente della mancanza di collaborazione cinese: l’Associated Press, a riguardo, cita materiale audio e documenti interni. L’Organizzazione mondiale della sanità sarebbe – in particolare – in tensione con Pechino per aver aspettato nel condividere i dati sul genoma del virus. Informazioni tenute segrete per oltre una settimana, che sarebbero state molto utili per comprendere meglio la capacità di diffusione del nuovo coronavirus.  Dati che, come riporta la Associated Press, sarebbero anche decisivi a livello di test, farmaci e vaccini. Un atteggiamento motivato, sempre secondo l’agenzia di stampa statunitense, da «un ferreo controllo sull’informazione e dalla competizione interna al sistema sanitario cinese» e che avrebbe creato molti ostacoli ai funzionari dell’Oms nella prima fase dell’epidemia, e cioè dopo la scoperta di casi di polmoniti anomale a Wuhan.

Da quando in cui il virus venne decodificato per la prima volta, cioè il 2 gennaio, al momento in cui l’Oms dichiarò quella del coronavirus una emergenza mondiale, il 30 gennaio, l’epidemia era già cresciuta di quasi 200 volte. Questo almeno riportano i dati del Chinese Center for Disease Control. A fine dicembre, alcuni medici iniziarono a segnalare delle «misteriose polmoniti». Torniamo indietro di qualche giorno, all’interno del periodo – tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio – che appare sempre più decisivo per quel che riguarda l’esplosione incontrollabile del virus: il 27 dicembre un’azienda, la Vision Medicals, aveva messo insieme gran parte delle sequenze del genoma di un virus incredibilmente simile alla Sars. L’azienda allertò le autorità di Wuhan che convocarono in fretta e furia Shi Zhengli, virologa specializzata nello studio del genoma di animali esotici, in particolare dei pipistrelli, nonchè responsabile del Centro malattie infettive dell’Istituto di Wuhan. La scienziata si trovava a Shanghai, da cui partì di corsa. Zhengli e il suo team si misero immediatamente al lavoro, decodificando il virus, appunto, il 2 gennaio. La Commissione sanitaria cinese impose però il silenzio ai laboratori, e alla stessa Shi Zhengli. Il 5 gennaio altri tre laboratori cinesi completarono la codifica del genoma del virus. A quel punto, nuovi casi di Covid 19 (che ancora non si chiamava così) stavano esplodendo in Cina. Il virus venne isolato anche in Thailandia, in una donna arrivata da Wuhan. La Thailandia non aveva però modo di confrontare il nuovo patogeno con le sequenze — al momento ancora segrete — individuate in Cina. L’Oms, in meeting interni, lamentava l’assenza di comunicazioni. Il genoma del virus venne pubblicamente diffuso da parte delle autorità cinese solo l’11 gennaio 2020, quando Zhang Yongzhen, uno scienziato di Shanghai, decise di pubblicarlo sul sito virological.org (e fu poi punito per questo: il suo laboratorio venne chiuso). Solo a quel punto, anche gli altri laboratori furono costretti a pubblicare le sequenze in loro possesso. Era il 12 gennaio. Il 14 gennaio gli scienziati cinesi comunicano di aver accertato la trasmissione umana del virus, ma soltanto il 20 gennaio sono le autorità cinesi a parlare per la prima volta di un virus in grado di trasmettersi da umano a umano. Ma anche a quel punto, la Cina non diede per altre due settimane all’Oms le informazioni che l’Organizzazione richiedeva. «Ci danno le informazioni un quarto d’ora prima di annunciarle sulla tv pubblica», avrebbe detto in un incontro il dottor Gauden Galea, il più alto rappresentante dell’Oms in Cina. Solo dopo un viaggio a Pechino del direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, il 30 gennaio, l’Oms dichiarò quella del coronavirus una emergenza globale. Il quadro che emerge dai documenti in possesso della Ap appare dunque in contraddizione sia con le affermazioni del presidente Xi Jinping — che ha sempre difeso l’operato del Paese come «tempestivo» e «trasparente» — sia con il punto di vista del presidente Trump, che ha accusato l’Oms di essere «sino-centrica».

Alla scarsa trasparenza cinese fa da contraltare una sorta di impotenza dell’Oms che non ha poteri ispettivi e non può indagare in maniera indipendente all’interno dei Paesi membri. La frustrazione dell’Oms era apparsa chiara nella seconda settimana di gennaio, prima dell’impennata di casi a Wuhan del 20 gennaio scorso. Il direttore delle emergenze dell’agenzia Onu, Michael Ryan, aveva lamentato che la Cina non stava collaborando come avevano fatto in passato altri Paesi. «Stiamo procedendo con informazioni minime, chiaramente non è abbastanza per una pianificazione appropriata», aveva dichiarato Maria van Kerkhove, a capo del gruppo tecnico sul Covid-19 dell’Oms, durante un incontro interno citato dall’Ap: denunciando dunque la mancanza di trasparenza sulla pandemia.

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