È corsa contro il tempo per la produzione di un vaccino contro il coronavirus: un processo molto lungo che potrebbe richiedere ancora molti anni di lavoro, ricerca e sperimentazione. Per questo serve un “piano B”.
Data la situazione attuale, sono molti i Paesi del mondo che si stanno dando da fare per trovare un rimedio, un vaccino al nuovo coronavirus. Un corsa contro il tempo che ha smosso e sta smuovendo importanti finanziamenti e tantissimi tra ricercatori ed esperti; ma non è un percorso facile, e non sarà una gara di breve durata. Produrre, sperimentare e testare un vaccino non è cosa semplice.
In un interessante articolo pubblicato sul Corriere, vengono non a caso analizzate le difficoltà e gli ostacoli che costellano un traguardo ancora, in realtà, abbastanza lontano. Perché se è vero che negli Stati Uniti i test clinici sono già partiti, se è vero che in Giappone questi inizieranno a luglio, e se è vero anche che al momento sono più di 100 le sperimentazioni in corso, produrre un vaccino efficace ha i suoi tempi e i suoi costi.
Per quanto riguarda il processo produttivo, la questione più difficile ricade nel dimostrare che il vaccino non solo funziona, ma che è anche sicuro per l’uomo – che non abbia cioé degli effetti collaterali. In una situazione come questa che stiamo vivendo, c’è chi si sbilancia ottimisticamente nel pronosticare come, entro un anno o poco più, il vaccino contro il Covid-19 sia pronto e disponibile per i primi pazienti.
Eppure, la storia ci insegna che “nel mondo normale ci vogliono dai cinque ai dieci anni, con una media di otto, per arrivare in farmacia con un vaccino”. A spiegarlo al Corriere è stato Sergio Abrignani, immunologo e ordinario di Patologia Statale di Milano, lo stesso che ha poi parlato ai giornalisti del suo scetticismo. “Secondo la mia esperienza, pur con tutte le scorciatoie del caso, sarà difficile avere un vaccino prima di due anni se vogliamo essere certi di due cose fondamentali: che sia sicuro e induca una risposta immunitaria protettiva, possibilmente duratura. Quando sento parlare di un vaccino pronto per settembre per me è fantascienza, e vorrei tanto essere smentito”.
Del resto, basti pensare come per alcune gravi malattie il vaccino addirittura non è mai arrivato. Sono ormai 32 milioni i morti provocati dall’HIV, virus dell’immunodeficienza che dal giorno della sua scoperta – nel 1984 – ancora non ha trovato un trattamento definitivo realmente efficace. Mentre in altri casi, la risposta armata del vaccino contro la malattia ha persino provocato più danni nei pazienti già debilitati dal virus, come nel caso della febbre dengue.
Ovviamente, non pare essere questo il caso del Covid-19; e sebbene sia vero il fatto che nel 2020 ancora nessun vaccino è stato mai testato sui coronavirus, la condivisione all’80% del patrimonio genetico tra Sars e Sars CoV 2 rende comunque la strada più semplice ai ricercatori intenti a trovarne un rimedio. Ma i tempi rimangono comunque piuttosto lunghi. “Per ottenere un risultato entro 18 mesi bisognerebbe bruciare le tappe“, spiega infatti Roben van Exan, biologo cellulare americano intervistato al New York Times. E bruciare le tappe significa ritrovarsi ad un uso emergenziale del vaccino, per il quale “solo dopo centinaia di vaccinazioni” si può essere “in grado di capire se il vaccino accelerato ha effetti collaterali”.
Ma la produzione di un vaccino ha, ovviamente, anche l’aspetto industriale da considerare. Come riportato dal Corriere, “le aziende normalmente costruiscono nuove strutture su misura per ogni vaccino e in genere ci vogliono circa cinque anni per costruirle perché seguono rigide linee guida”. Altro tempo che se ne va, dunque. E altri mesi sono anche quelli passati non solo a produrre fisicamente la sostanza, ma anche a confezionarla correttamente, sfruttando macchinari di alta precisione e un’ingente quantità di fialette – strumenti che anch’essi vanno prodotti e distribuiti alle aziende.
Se la fase di approvazione non fosse stata lunga abbastanza, ci penserebbe comunque l’autorizzazione all’uso del vaccino a rallentare il processo. Si tratta, infatti, di una procedura che va ben oltre dei fogli di carta e la formalità, e che può durare per questo anche più di un anno. Approvare un vaccino, infatti, significa immettere nel mercato un prodotto sicuro e, appunto, efficace.
Per tutte queste ragioni, allora, pare evidente l’importanza di avere un piano di riserva, un “piano B“. Se un vaccino non trova la sua nascita nel giro di breve tempo, diventa fondamentale imparare a convivere con una malattia che, almeno per il momento, non si può debellare. Convivere con una malattia che, tuttavia, si potrebbe comunque trattare. Non a caso, negli ospedali si stanno già sperimentando usi alternativi ad antivirali, farmaci anti Ebola, al Remndesivir. Anche i trattamenti al plasma sanguigno sembra stiano dando i loro primi frutti.
Nulla di concretamente acclamato, questo è certo, ed è per questo che il piano B della convivenza prevede anche, per forza di cosa, il cambiamento nel nostro modo di vivere. Mascherine, distanziamento sociale, limitazioni nelle nostre attività un tempo quotidiane e date persino per scontate – quanti di noi si sono mai soffermati veramente sull’importanza di un abbraccio? – dovranno prendere quindi il sopravvento per almeno qualche tempo. Finché dal “piano B” non si potrà passare ufficialmente al “piano A”, la somministrazione del vaccino.
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