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Cronaca

Coronavirus e inquinamento: c’è un legame, lo attestano ricerche

Inquinamento e Coronavirus: c’è un nesso. Il tasso di mortalità nei malati di Coronavirus, se esposti ad alti livelli di inquinamento, aumenta. Lo dimostra lo studio della Harvard University e lo studio dell’Università di Catania traccia i fattori di rischio per l’Italia.

Coronavirus e inquinamento: c’è un legame e va studiato – meteoweek.com

Inquinamento: i malati di coronavirus in zone inquinate rischiano di morire rispetto ai pazienti che avrebbero vissuto in aeree più pulite degli Stati Uniti.

Questo è quanto emerge da uno studio condotto dalla Harvard University T.H. Chan School of Public Health, secondo il quale elevati livelli di particelle PM 2.5 sarebbero legati a tassi di mortalità da Covid-19 più alti.

Dallo studio di Harvard sull’inquinamento ad un’analisi più dettagliata

“Il recente studio di Harvard che correla inquinamento e diffusione del Convid-19 è uno studio solido che sollecita una riflessione importante, però dobbiamo essere consapevoli che va fatta un’analisi di dettaglio.

Dobbiamo approfondire questo argomento ed i ricercatori dell’Iss lavoreranno su questo tipo di scenario“. Queste le parole del presidente dell’Iss Silvio Brusaferro alla conferenza stampa all’Istituto.

I risultati dello studio, affermano i ricercatori di Harvard, come riportato dal New York Times, evidenziano che un’esposizione prolungata all’inquinamento aumenterebbe la vulnerabilità.

Lo studio di Harvard è il primo a livello nazionale americano a mostrare un legame statistico e un’”ampia sovrapposizione” fra le morti a causa del coronavirus e altre malattie legate all’esposizione alle particelle PM 2.5.

Università di Catania, legame fra inquinamento e Covid-19 in Italia

Il nostro indice di rischio epidemico mostra forti correlazioni con i dati ufficiali disponibili dell’epidemia Covid-19 in Italia. Spiega in particolare perché regioni come Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto stiano soffrendo molto di più rispetto al centro-sud”

Queste le parole dei ricercatori che hanno condotto lo studio “Strategies to mitigate the Covid-19 pandemic risk”, realizzato dall’università di Catania su dati Istat, Istituto superiore della Sanità e altre agenzie europee.

Il team comprendeva dipartimenti dell’Ateneo etneo di Economia e impresa, Ingegneria elettrica, Fisica e astronomia, Medicina clinica sperimentale, Matematica e informatica, Ingegneria civile e architettura.

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I fattori di rischio per l’Italia

Secondo questo studio, l’inquinamento atmosferico da particelle nocive Pm10, la temperatura invernale, la mobilità, la densità e l’anzianità della popolazione, la densità di strutture ospedaliere e abitativa sarebbero stati dei fattori importanti che avrebbero contribuito ad un impatto maggiore della pandemia Covid-19 in Italia. Fattori che avrebbero avuto un ruolo nella sua diversa diffusione nelle regioni del nostro Paese secondo uno studio.

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“D’altra parte queste sono anche le stesse regioni che solitamente subiscono il maggiore impatto (in termini di casi gravi e decessi) anche per le influenze stagionali, come rivelano i dati dell’Iss” – continuano i ricercatori. “Riteniamo quindi che non sia un caso che la pandemia di Covid-19 si sia diffusa più rapidamente proprio in quelle regioni con un più alto rischio epidemico come Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto“.

Secondo lo studio “in Italia, a causa di una fortissima percentuale di asintomatici o sintomatici lievi ci possono essere al momento da uno a dieci milioni di persone che sono venute in contatto col virus” e un “impatto positivo è venuto dal lockdown”.

Per i ricercatori, inoltre i dati lascerebbero ben sperare per il centro-sud, dove con ogni probabilità l’impatto della pandemia o di possibili ondate future sarà sempre più leggero in termini di casi gravi e decessi, visto il minor rischio epidemico connesso ai fattori strutturali analizzati.

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