La storia di Stefania Giardoni, una delle prime malate di Covid 19 a Roma: dopo quasi un mese di ricovero viene dimessa, ma sta male. Torna in ospedale, ed è ancora positiva.
“Lavoravo a “Risparmio Casa”, il mio contratto è scaduto il 29 febbraio. Credo di essermelo preso lì, il Coronavirus”. Inizia così la lunga intervista con Stefania Giardoni, la donna di Roma che si è ammalata di Coronavirus a fine febbraio, è stata ricoverata, dimessa ed è di nuovo positiva. Anzi, lo è ancora: perchè da quel che sembra in realtà Stefania non è mai realmente guarita. Ci ha raccontato la sue esperienza in una lunga intervista, in cui esprime anche dei personali pareri su quello che le è successo.
Stefania, partiamo dall’inizio: come si sono manifestati i sintomi, e quando hai capito di avere il coronavirus?
«Il 23 febbraio mi viene un raffreddore. Ci scherzavo anche con i colleghi: “tu guarda se mi sono presa il Coronavirus”. Ma già da qualche giorno prima avevo un forte mal di testa. Prendevo tachipirina per farmelo passare, ma non se ne andava. Pensavo allo stress, al lavoro, e non mi sono rivolto al medico. Poi ho iniziato a starnutire, e poco dopo non sentivo più gli odori ed i sapori. Poi i primi colpi di tosse, proprio il 29: il mio ultimo giorno di lavoro. Il due marzo arriva un pò di febbre, qualche linea. A quel punto vado dal dottore, il medico di base: mi prescrive ancora tachipirina, e anche lui mi fa la battuta: “ma non è che hai preso il Coronavirus?”. Il giorno dopo la febbre sparisce, continuo a tossire. Poi torna la febbre, 37.4. Sempre tosse, che aumenta. Torno dal dottore, con cui ho comunicato sempre dalla finestra: nonostante mi sembrasse impossibile, mi sono fatta lo scrupolo di evitare contatti. In quello studio ci sono molti anziani, meglio non rischiare. In quella occasione il dottore, sentendo la tosse secca, mi consigliò uno sciroppo mucolitico. Ma il sospetto di essermi contagiata lo avevo. Il giorno dopo niente febbre, il sabato sono andato a fare una prova di lavoro, anche fisicamente impegnativa. Mi sentivo bene: invece purtroppo il pomeriggio, parliamo del 7 marzo, inizio a respirare male. Vado allo Spallanzani, quel giorno stesso: polmonite bilaterale interstiziale con zone già opache. Mi hanno ricoverata immediatamente, senza farmi nemmeno il tampone. Non avevo la febbre alta, ma hanno capito subito quello che mi stava succedendo».
Quando e dove pensi di aver contratto il virus?
«Sono abbastanza certa di essermi ammalata lavorando al supermercato, e vi spiego perchè: fino al 29 febbraio uscivo di casa molto presto, andavo al bar a prendere il caffè, ed ero praticamente sempre sola. Attaccavo, e lì avevo contatti con la gente: toccavo i soldi, interagivo. Poi io ho il vizio di toccarmi i capelli, strofinarmi gli occhi, il naso: credo proprio di essermelo beccato lì».
Il 7 marzo vai allo Spallanzani: cosa succede poi?
«Si, il 7 marzo dunque entro allo Spallanzani, in reparto. E ci sono rimasta fino al 23: all’inizio i medici valutavano l’ipotesi di ricoverarmi in terapia intensiva, ma fortunatamente il mio organismo ha reagito. La mia terapia all’inizio era a base di Kaletra. Nonostante questo, ho reagito bene. Per qualche giorno mi hanno dato anche l’idrossiclorochina, che mi è stata sospesa subito perchè mi creava problemi al cuore. Mi hanno curato benissimo, allo Spallanzani: non posso che fare i miei complimenti a quei medici e a quegli infermieri, sono stati degli angeli che si sono presi cura di me al meglio. Il 23 sono stata dimessa. Mi hanno spiegato che la malattia la stavo sconfiggendo da sola, perchè stavo producendo anticorpi. Lo si vedeva dalle analisi. Dovevo essere trasferita in un’altra struttura per terminare il mio percorso di guarigione. A quel punto mi hanno portato al Covid Hospital di Casal Palocco, dove in effetti il 25 ho smesso di prendere il Kaletra. A quel punto la mia terapia è diventata molto semplice: ossigeno e paracodina, oltre ad un farmaco che prendo per un’altra patologia che non c’entra nulla con il Coronavirus. Erano i primi giorni di apertura, lì a Casal Palocco. C’era un pò di disorganizzazione, era evidente. Problemi nella distribuzione dei pasti, ad esempio. Sono iniziati un pò di attriti, di contrasti. Ho avuto una discussione con il primario, con cui poi mia sorella ha parlato. Sia lui che la dottoressa che mi seguiva mi ribadirono che stavo guarendo da sola: ci voleva solo tempo. La mia terapia era solo ossigeno. Intorno al 26 marzo cambia tutto: il primario viene da me e mi dice di fare un tampone. Se negativa, dovevo andare a casa».
Quindi si può dire che per i medici del Covid 3 di casal Palocco, tu fossi guarita?
«Questa affermazione così perentoria mi stupì: fino a quel momento ero risultata positiva a tutti i tamponi, mi sembrava strano che la vicenda si risolvesse così. Il 26 mi fa un prelievo e poi inizia con i tamponi: tutti positivi, fino al 30 marzo. Quel giorno risulto per la prima volta negativa. Il 1° aprile stessa cosa, negativo. A quel punto mi mette in dimissione per il 3 aprile. Io nel frattempo avevo iniziato a stare male con la pressione, crisi ipertensive. Mai avute prima in vita mia. La situazione era surreale: due tamponi negativi, ed io ovviamente ero molto felice. Però, regolarmente, la sera mi arrivavano queste crisi ipertensive devastanti. Nonostante questo, il 3 vengo dimessa: come a volersi sbrigare a liberare il posto. E’ una mia impressione, sia chiaro, ma è quello che ho pensato e ve lo riporto. La mia non è una critica nei confronti del personale medico, anche in questo caso di grande livello. Però che qualcosa sia stato deciso in modo frettoloso ed approssimativo devo dirlo, è la mia vicenda a raccontarlo».
A quel punto sei andata a casa, nonostante qualche malessere: ma ci sei stata poco…
«Il giorno della dimissione l’infermiere voleva farmi un holter, per via di queste crisi ipertensive. Il primario invece ha insistito nel mandarmi a casa: con un mal di testa fortissimo e la pressione alle stelle. E così sono stata, per due giorni a casa: crisi ipertensive e mal di testa. Mi era anche tornato l’affanno. A quel punto il mio compagno ha chiamato il suo cardiologo, che mi ha detto di andare immediatamente al Pronto Soccorso, dopo essersi stupito delle mie dimissioni. E lì, l’incredibile sorpresa: sono di nuovo, o meglio, ancora positiva. Al tampone e poi alle analisi. Sono stata portata al padiglione Lancisi, sempre del S.Camillo, in isolamento. Ed è li che, grazie ad una brava dottoressa, ho scoperto la ragione delle mie crisi ipertensive: nel mio piano terapeutico era ancora inserita l’idrossiclorochina. Quella che avevo preso allo Spallanzani e che poi mi avevano tolto. E che al Covid 3 di casal Palocco mi è stata somministrata. Altro che ansia!».
Ti era stata indicata l’ansia come causa del tuo malessere?
«Si, a Casal Palocco la mia pressione alta era giustificata così: “Lei ha l’ansia”. Ma quale ansia! Avevo saputo di essere negativa, altro che ansia. Ero felice. Ma la cosa più grave è il fatto di essere stata dimessa e poi di essere tornata positiva. Eppure mi dicevano che stavo bene, ho le registrazioni. Mi hanno fatto tornare a casa con le crisi ipertensive e probabilmente ancora positiva. Perchè la mia non è una ricaduta».
Di questo sei certa? Non è una ricaduta?
“No, non è una ricaduta la mia, assolutamente. I medici del S.Camillo, padiglione Lancisi, stati chiarissimi: sono nella parte finale, nella “coda” della mia malattia. Mi hanno rifatto tutti gli accertamenti, compresa la tac con contrasto. A Casal Palocco me l’avevano fatta senza contrasto. Ma qualcosa di sbagliato c’è: in altre strutture, dopo due tamponi negativi, il paziente viene comunque seguito per altri giorni, o al massimo mandato a casa ma isolato e sotto il controllo dell’Asl. Anche sul ruolo delle Asl ci sarebbe molto da dire. Ho sentito molti medici, negli ospedali in cui sono stata ricoverata, prendersela con le Asl. Fanno ammalare ed aggravare la gente dentro casa, mentre qui a Roma i posti negli ospedali ci sono, i medici sono pronti ad accogliere i pazienti. Non c’è una situazione come purtroppo nel nord Italia, dove l’emergenza detta metodi diversi. C’è un sacco di gente chiusa in casa inutilmente. Anche gente che si sarebbe potuta salvare, se mandata in ospedale. I medici di base avrebbero dovuto essere forniti subito delle protezioni e dei dispositivi, e andare a visitare la gente che si ammalava. E a proposito delle Asl: non arrivano mai. Mio figlio ha aspettato giorni il tampone, e ancora non sa l’esito. Lo ha fatto il 24 marzo».
Non eri guarita, dunque.
«Il virus ancora circola nel mio organismo. Sono nella fase finale, mi hanno spiegato i medici. Mi dovevano tenere sotto osservazione, fare un terzo tampone, fare esami sierologici. Per me a Casal Palocco c’è stata un pò di superficialità. Io non ho avuto ricadute, sono uscito da un ospedale ed entrata in un altro. Dovevo solo guarire, dovevano aspettare e darmi le giuste terapie».
Quali sono le tue condizioni ora? Che terapia stai seguendo?
«Adesso la mia terapia è questa: Zitromax, anticoagulante, potassio, ipertensione ed un farmaco antivirale più mirato al mio caso. Io al momento ho ancora il coronavirus e la polmonite in fase conclusiva. Un pò di tempo ancora ed il mio organismo finirà di curarmi, come mi hanno spiegato in tutti e tre gli ospedali. Devo solo avere pazienza, ci vuole tempo. Ma devo stare in ospedale finchè il virus non sparirà del tutto dal mio organizmo. Questo doveva essere fatto, e non è stato fatto».
Cosa ti ha insegnato questa esperienza?
«Che bisogna avere pazienza, aspettare che il paziente guarisca davvero. E sopratutto – questo vale per le Asl – non vanno seppellite le persone in casa. Vanno curate subito, bene e se possibile (e a Roma è possibile) in ospedale. E poi i tamponi: fateli, non è possibile non sapere se una persona sia positiva o meno. Il mio compagno ancora non l’ha fatto, mio figlio ha i miei stessi sintomi dell’inizio e ancora non sa i risultati: è assurdo».