Tre docenti del Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino fanno la proposta. “Sarebbe un test made in Italy per affrontare il Coronavirus”.
L’emergenza Coronavirus in Italia sembra essere giunta nella sua fase di gestione un po’ meno complicata. Rispetto ai giorni scorsi, infatti, i dati non sembrano avere picchi preoccupanti, soprattutto sul piano dei nuovi contagi e dei ricoveri in terapia intensiva. E anche le istituzioni sul piano medico e sanitario stanno provando a portare nuovi frutti. Il Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino, ad esempio, ha svelato le sue ultime operazioni sul piano scientifico per dare il proprio contributo alla lotta contro il virus.
Sergio Rosati, Barbara Colitti e Luigi Bertolotti hanno scritto un lungo testo, pubblicato su Avvenire. Qui hanno scritto una proposta che può servire per combattere la diffusione e l’aggressività del Coronavirus. “Gli esperti si stanno già interrogando su come si dovrà ripartire e quali strumenti si possono mettere in campo per evitare di ripiombare nel baratro. Come virologi veterinari del Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino siamo riusciti a sviluppare due proteine del virus Sars-CoV-2 in forma ricombinante e siamo pronti per lanciare una nostra proposta. Un test sierologico per identificare i soggetti che, avendo superato l’infezione asintomatica, potrebbero risultare immuni da successive infezioni e rappresentare quella fetta di popolazione dalla quale ripartire“.
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L’attività del Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino, del resto, non si fermano anche in ottica Coronavirus. “Nel nostro stesso piano al Dipartimento – prosegue il testo dei tre prof – condividiamo gli uffici con esperti di epidemiologia, immunologia, batteriologia, biologia molecolare, biostatistica ed ospitiamo uno spin-off, la “in3diagnostic”, che sviluppa test per le malattie degli animali. Lo scambio di idee e la condivisione delle conoscenze, che non sempre si manifesta all’interno della comunità scientifica, è un grande vantaggio“.
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La proposta contro il Coronavirus
Dopodichè, Rosati, Colitti e Bertolotti svelano la loro ipotesi per affrontare il Coronavirus, accennata nelle righe precedenti. “Se da più parti si consolida l’opinione che circa l’80% delle persone contrae una forma di Covid-19 asintomatica, allora vorrebbe dire che, ad oggi, circa 250.000-300.000 persone hanno già brillantemente superato l’infezione naturale. Queste persone, in altri termini, hanno sconfitto il virus con il loro sistema immunitario. La speranza, tutta però da verificare, è che siano resistenti a successive infezioni con lo stesso virus, almeno per un certo periodo. Se Covid-19 non seguisse questa regola, allora sarebbe inutile parlare di vaccino, perché questo conta sul fatto che il nostro sistema immunitario impara e ricorda“.
“Se la vediamo da un altro punto di vista – prosegue la proposta – , tornando all’80% di prima, è come se questi “fortunati” cittadini, avessero vinto un biglietto della lotteria: è come se si fossero vaccinati con il miglior vaccino possibile, ovvero un’infezione per via naturale, asintomatica e una robusta risposta immunitaria nelle sue diverse forme. Se cominciamo a cercare nel sangue delle persone gli anticorpi verso le proteine virali possiamo intercettare con rapidità tutti i sieropositivi e identificare una fascia della popolazione a cui potrebbe essere consentito di riprendere, prima di altri, l’attività lavorativa, facendo leva sull’immunità di popolazione di cui si è tanto dibattuto“.
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Un pensiero per i medici
Il primo pensiero dei tre professori del Dipartimento va ai medici e al personale sanitario. “È giusto che questa fascia a rischio pretenda il tampone, ma ricordiamoci che un esito negativo al tampone non dice se quella persona non si è ancora contagiata o se ha già superato l’infezione ed è tornata negativa per il virus. Invece la presenza di anticorpi consentirebbe di classificare il personale “immune” e, pur con tutte le cautele del caso, consentire loro di esercitare l’attività lavorativa con maggiore serenità. Seguirli nel tempo consentirebbe inoltre di verificare l’ipotesi di una immunità protettiva e la sua durata, individuando una delle tante strade che potrebbero portarci fuori da questo incubo“.
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Ma come si ricercano gli anticorpi? Anche a questa domanda rispondono i tre docenti. “Per farlo bisogna avere il virus, che dovrebbe essere messo a disposizione da chi lo ha isolato, ma per fortuna, oggi, le tecniche di ingegneria genetica ci consentono di produrre le proteine virali nei batteri o in cellule di mammifero, senza manipolazioni rischiose“. La ricerca del Dipartimento è nata insieme all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia ed Emilia Romagna, il Dipartimento di Chimica dell’Università di Torino e la “in3diagnostic”. Questa unione di itenti consente di fornire reagenti, discutere strategie e dividersi il lavoro. “La fase sperimentale sta per avere inizio – svelano i docenti – , grazie all’interesse di alcuni Ospedali di riferimento e presto avremo i primi risultati“.
Sarebbe un test possibile grazie a una lunga rete di imprese già note su scala nazionale. Sarebbe un test “made in Italy” che consentirebbe di non importare nulla e di dare forza ai produttori nazionali. E soprattutto sarebbe un test convalidato dalla scienza, a differenza di altri test sierologici per i quali “alcune regioni si stiano muovendo in ordine sparso e senza solide basi scientifiche“.