Nel 1985, trentacinque anni fa, arrivava nelle sale cinematografiche il capolavoro distopico di Terry Gilliam. Brazil ha ridefinito un genere e consacrato il talento di Gilliam: narratore dell’assurdo e del deformato che, attraverso il fantastico, vuole comprendere e analizzare il presente.
Trentacinque anni fa arrivava al cinema Brazil, capolavoro di Terry Gilliam. Il film è ambientato in un mondo distopico in cui la burocrazia ha preso il sopravvento e dove chi detiene il potere uccide chi tenta di ribellarsi e i pochi cittadini che ancora riescono a sognare.
Brazil | analisi di un capolavoro
Quel capolavoro di Terry Gilliam, proprio come il suo seguito “spirituale” The Zero Theorem, è un film di fantascienza distopica ma soprattutto un trionfo di tutte quelle piccole assurdità che da sempre animano il cinema dell’ex Monty Python, amante della deformazione come unica lente attraverso la quale guardare il mondo e le cose. Brazil, ancora più che per l’affresco complessivo che disegna, viene ricordato oggi per le piccole invenzioni molto ironiche e poco “attendibili” sul nostro futuro. Per Gilliam il cinema di fantascienza distopico non è mai stato un mezzo per “prevedere” il futuro o quello che sarà, ma per descrivere efficacemente il presente. In Brazi la verosimiglianza non conta nulla, perché è proprio attraverso l’invenzione, la menzogna e la fantasia, che si riescono a dire cose vere.
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Polvere e musica
Il titolo del film deriva dal brano Aquarela do Brasil (1939) di Ary Barroso, ricorrente nel lungometraggio a livello diegetico (è trasmesso da un’emittente radio, fischiettato e canticchiato più volte dai personaggi). Il compositore Michael Kamen lo ha utilizzato come base per ricavare, con ingegnose variazioni, quasi tutti i brani della colonna sonora. Gilliam lo scelse per la melodia dolce e nostalgica, che strideva con le atmosfere cupe e fumose del film. Siccome Port Talbot è una città d’acciaio, sempre circondata da una grigia polvere di metallo, dove persino la spiaggia è nera a causa dello smog, il sole al tramonto è un avvenimento di una bellezza irrinunciabile. Da questa idea, Gilliam sceglie di ricreare il contrasto tra leggerezza tropicale e industrializzazione: l’immagine di un uomo seduto sulla spiaggia squallida della città con una piccola radio al suo fianco, che trasmette canzoni di evasione sudamericane. La musica rende il mondo attorno a lui meno grigio e meccanico.
Tra Fellini e Orwell
La base del film è il romanzo 1984 di George Orwell, ma la lezione cinematografica che Gilliam riprende è invece quella felliniana (tanto che il film si sarebbe dovuto chiamare, nelle idee del regista, 1984 1/2). Ma a differenza del Winston Smith del romanzo di Orwell, il mediocre Sam Lowry interpretato da Jonathan Pryce non odia affatto il sistema in cui è ingabbiato, ma sembra quasi trovarsi a proprio agio con tutta quella burocrazia, tutto sommato soddisfatto del suo orribile lavoro come dipendente dell’archivio del Ministero dell’Informazione, in cui ogni giorno vengono spostate tonnellate di carta da un ufficio all’altro. Lui, come gli altri impiegati, non aspetta altro che il capo, l’altrettanto mediocre Mr. Kurtzman, si ritiri nel proprio ufficio per poter guardare la televisione indisturbato. I suoi sogni non sono mai un atto sovversivo, ma piuttosto un modo per scappare da quella mediocrità che, in qualche modo, ha accettato di vivere prima che gli eventi lo travolgano.