L’ex direttore del dipartimento di Medicina dell’ospedale Papa Giovanni XXIII offre un quadro obiettivo ma durissimo di come si vive l’emergenza coronavirus nella trincea degli ospedali.
“Un soldato che perde i compagni”
Una delle voci più autorevoli di Bergamo in questi ultimi giorni è stata quella di Giuseppe Remuzzi. Il medico che guida l’Istituto Mario Negri per anni è stato alla direzione del dipartimento di Medicina del Papa Giovanni XXIII. Oggi come anni fa è in trincea, per dare una mano, qualche consiglio e condividere un’esperienza drammatica con colleghi più giovani di lui che si attendono una parola di incoraggiamento e di speranza. “Mi chiedono come sto – dice rispondendo a una bella intervista pubblicata sul Corriere – mi sento come un soldato che perde i suoi compagni. Un mio amico dottore ricoverato in pneumologia in situazione critica, altri due intubati. Quando vedi queste cose, con le persone che sono cresciute con te in questi anni, che cadono mentre il nemico avanza, ti viene da piangere, non ce la fai. Mentre parliamo vedo le ambulanze che continuano a passare, e su ogni ambulanza c’è un essere umano che non respira. Ecco come sto”.
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“Emergenza enorme”
“Quello che sta accadendo a Bergamo è qualcosa di enorme. Due martedì fa i morti erano tre. Sette giorni dopo, 33. Oggi, 58. Avranno anche avuto altre malattie, ma senza il virus sarebbero ancora qui. E le polmoniti di questa settimana sono molto più gravi di quelle della settimana scorsa. La gente a quanto pare è terrorizzata di andare in ospedale perché pensa di stare anche peggio. Resta a casa finché ce la fa, con tachipirina e qualche antibiotico. Quando arrivano qui devono essere intubati perché non ce la fanno più a respirare».
Un virus dannatamente subdolo
Questo coronavirus si rivela sfuggente, ingannevole ma anche tremendamente resistente: “È vero, tra tutti quelli che abbiamo affrontato questo è mutato in fretta. Fatichiamo a trovare una risposta immune. Fatichiamo a curare. Questa non è una malattia benigna. Questa non è, come diceva o forse sperava qualcuno, una influenza. È una malattia di cui si muore. Non solo gli anziani, ma anche giovani. E sicuramente ha colpito molte più persone di quante siamo in grado di trattare”.
L’emergenza in vallata
Forse la zona rossa sarebbe servita prima: “Come ormai tutti sanno, abbiamo due zone colpite: Nembro e Alzano. Già a dicembre i medici di base di quest’ultimo comune si sono trovati di fronte a polmoniti mai viste. Ma hanno pensato che fosse una evoluzione del ceppo annuale dell’influenza. È difficile capire che sei di fronte a qualcosa di nuovo se non l’hai mai visto prima. Anche noi studiosi eravamo convinti che il virus non fosse così aggressivo. Alzano Lombardo è un piccolo colosso, un grande centro industriale con contatti di ogni tipo, vai e vieni da ogni parte del mondo. Nembro è una delle città più vive e frequentate della zona. Un posto da movida, a farla breve. Di qui la rapidissima diffusione”.
L’inutile paziente zero
“Inutile cercare il paziente zero… di storie ce ne sono tante e posso raccontarne anche io. Medici che vanno e vengono dalla Germania e che erano qui, o a Codogno, ne ha scritto anche New England Journal of Medicine, la pubblicazione di settore più importante del mondo. Ma la verità è che non serve a niente. Da fine ottobre, quando il virus è comparso anche in Europa, fino a gennaio, quando ce ne siamo accorti, c’è stato uno scambio continuo di milioni di persone. Chissà chi è andato, chissà chi è venuto. Il paziente zero non ci serve. Adesso ci servono posti in rianimazione. Qui forse sarebbe servita subito una zona rossa, come a Codogno. L’assenza di una zona rossa ha peggiorato una situazione già grave”.
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Il nostro esercito
“Nelle ultime due settimane abbiamo formato 1.500 infermieri e medici. Abbiamo un disperato bisogno di personale. Abbiamo oculisti e dermatologi che stanno imparando l’assistenza respiratoria. Posso garantire che ho detto spesso che i neolaureati il mestiere, lo imparano meglio in ospedale. Ma nessuno mi ha mai voluto ascoltare. Se l’avessimo fatto, oggi avremmo un esercito di “riservisti” prezioso a dir poco.”
Il generale silenzioso dell’esercito dei riservisti medici di Bergamo chiude con una frase che vale un capitolo a parte: “Continuo a lavorare ma vivo con l’idea che possa capitare a me e se capitasse direi a chi mi assiste di intubare un ragazzo, e non me. Io ho settant’anni”.