Qualche giorno fa è stato pubblicato il trailer di The French Dispatch. Il prossimo film di Wes Anderson vuole essere una vera e propria lettera d’amore per il mestiere del giornalista. Nell’attesa di vederlo in sala la prossima estate, facciamo il punto sul cinema di uno dei registi oggi più popolari e trasversali, in grado di conquistare appassionati e spettatori casuali.
Wes Anderson riesce con ogni suo film a raccontare sempre la stessa storia cambiando tutto quello che gli ruota attorno (come d’altronde fanno altri maestri del cinema come Woody Allen). Per questo in ogni suo film sono rilevabili degli elementi che tornano costantemente e che sono essenziali per spiegare il successo di un autore improvvisamente diventato fenomeno di massa e non più appannaggio di una ristretta cerchia di appassionati.
Wes Anderson sembra realizzare i suoi film con la stessa precisione e meticolosità con cui uno chef muoverebbe le sue mani per preparare una porzione di sushi: con decisione e seguendo mosse rapide e sicure, cercando l’assoluta perfezione nell’esecuzione attraverso il numero minore di gesti possibile. Proprio come per il sushi è essenziale l’equilibrio di ogni sapore, così il cinema di Wes Anderson sembra reggersi su di una fragile e precaria armonia fra bambinesca dolcezza ed ansia della fine. Anche per questo L’Isola dei Cani, il suo unico film veramente “post-apocalittico” e “distopico”, riesce (anche grazie alla eccezionale colonna sonora di Alexandre Desplat) nel comunicare quel senso di conclusione ineluttabile che da sempre attraversa il suo cinema, sia che si parli di intrepidi giovani che fuggono per impedire che qualcuno ponga fine al loro amore, sia che si parli di cani che devono scappare dal loro esilio per evitare la soppressione.
Come ha dimostrato il (meritatissimo) successo dei suoi film d’animazione (L’Isola dei Cani e Fantastic Mr. Fox), la dimensione della stop-motion è quella migliore per i suoi personaggi, sempre apparentemente ingabbiati nella loro rigida fissità, ma invece animati e mossi da pulsioni infantili, elementari e quindi irrazionali ed incontenibili. Questi slanci bambineschi si oppongono all’immobilismo che li ancora al suolo. Proprio questo costante attrito tra il proprio corpo (sempre fermo e che si muove il meno possibile) e i propri sentimenti è la base su cui si poggia la poetica di un regista che nell’animazione in stop-motion ha trovato il modo migliore per mettere in scena i suoi pupazzi, la cui azione è sempre meno importante della loro inazione.
Ma è senza dubbio con Moonrise Kingdom che Wes Anderson riesce a sintetizzare al meglio tutto ciò che il suo cinema rappresenta fin dai tempi di Rushmore, ovvero lo sforzo di mettere in mostra la sconsolante normalità di figure apparentemente fuori dall’ordinario e quella condizione esistenziale per cui si vuole crescere velocemente quando si è bambini e non crescere più quando si è ormai grandi. I due giovanissimi protagonisti di Moonrise Kingdom si vestono da adulti e perdono ordini da adulti che invece si vestono come ragazzini. Il senso di una intera filmografia spiegato soltanto attraverso l’utilizzo perfetto dei costumi. È questa la capacità di fare grande cinema con un minimalismo inarrivabile.
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