Violenze e temporaneo esilio in una prigione segreta: questo è l’accoglienza che spetterebbe ai migranti che arrivano in Grecia passando dal confine turco. Una scoperta drammatica, effettuata dal New York Times.
Una situazione drammatica quella che sta avendo luogo al confine tra la Grecia e la Turchia. A fine febbraio il presidente turco Erdoğan ha aperto i confini del paese ai migranti intenzionati a raggiungere l’Europa, a seguito dell’uccisione di 36 soldati turchi vicino a Idlib.
Il governo greco, tuttavia, ha scelto di non aprire i suoi confini ai flussi migratori che vogliono raggiungere l’Europa, accusando la Turchia di facilitare un’immigrazione illegale, e respingendo con violenza tutti coloro che, via terra o vi mare, tentano ora l’ingresso in Grecia. Ma un’inchiesta del New York Times, addirittura, riporta l’esistenza di una vera e propria prigione, presso la quale i migranti sarebbero barbaramente trattenuti dopo aver attraversato il confine turco.
Si tratterebbe, secondo quanto riportato dall’inchiesta del giornale americano, di un luogo segreto, sfruttato per trattenere in maniera illegale e sommaria tutti i richiedenti asilo che arrivano dalla Turchia, prima che possano essere riportati indietro.
L’inchiesta effettuata dal New York Times prende in considerazione testimonianze reali di persone che hanno avuto esperienza diretta con questa prigione segreta. I migranti con cui il giornale è venuto ha contatto, infatti, hanno raccontato per filo e per segno di come sono stati catturati, privati dei loro effetti personali, picchiati ed espulsi dal Paese senza potersi appellare ad avvocati o al diritto d’asilo.
Oltre alle testimonianze dei migranti che hanno confessato la vicenda, inoltre, ulteriori prove dell’esistenza del centro segreto provengono da una serie di informazioni raccolte direttamente sul campo e dalle immagini satellitari scattate sopra l’area interessata dalle indiscrezioni. Il sito, allora, si troverebbe nella parte nord-orientale della Grecia, a poche centinaia di metri a est della città di Poros, vicino al confine.
Inoltre, secondo quanto ricostruito dalle testimonianze di un ingegnere curdo-siriano di nome Somar al-Hussein, uno dei primi migranti ad aver raggiunto questo “black site”, la struttura della prigione sarebbe formata da tre capannoni con il tetto rosso disposti a ferro di cavallo.
Somar al-Hussein ha raccontato ai giornalisti del New York Times che insieme a lui, quella notte in cui è stato prelevato e portato dagli agenti greci nella prigione, c’erano centinaia di migranti. Come è possibile scoprire dal suo racconto, Somar e altre dozzine di persone sono state poi portate all’interno della struttura, in una delle tante stanze presenti, e lì dentro stipati per diverso tempo. Una notte intera, confessa l’ingegnere siriano, passata tra l’altro senza cibo e senza acqua.
Gli è stato prelevato ogni effetto personale, cellulare compreso, e non gli è stato permesso di contattare alcun funzionario delle Nazioni Unite per richiedere il diritto d’asilo. “Per loro siamo come animali“, avrebbe confessato Somar, parlando delle guardie che l’hanno trattenuto violando ogni diritto, europeo e internazionale, in quel posto sperduto. E, proprio come fossero degli animali, sarebbero stati infine tutti riportati in Turchia, stipati nuovamente – questa volta però su di un motoscafo, usato per attraversare il fiume Evros. Abbandonati lì, senza più niente addosso, al loro destino.
Quella di Somar è solo una delle tante testimonianze raccolte – forse una delle più dettagliate. Ma a confermare il tutto, è intervenuto un ex funzionario greco, che conosce chiaramente i metodi della polizia locale. L’ex funzionario, allora, avrebbe confermato non solo l’esistenza del sito, ma anche che un luogo del genere (non classificato come struttura di detenzione) viene ripetutamente utilizzato in modo “informale” nei periodi in cui ci assiste ad elevati flussi migratori.
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