Il direttore scientifico dello “Spallanzani” fa anche un plauso a chi ha consentito di scoprire quanto si sa sul virus. “Il percorso non durerà meno di un anno”, ha dichiarato Giuseppe Ippolito.
La situazione del Coronavirus sembra essere finalmente sotto controllo, dopo una settimana ad alta tensione. Sono sempre di più le regioni in cui si riscontrano casi – per fortuna isolati – di contagio. In ogni caso gli ospedali sono al lavoro in maniera costante per garantire le cure ma anche la prevenzione per chi non ha contratto il virus. Ma la struttura che ha iniziato a lavorare fin dall’inizio su questo fronte è lo “Spallanzani” di Roma. Qui, a dirigere le operazioni troviamo Giuseppe Ippolito, il quale ha svelato a La Stampa come ha lavorato l’ospedale capitolino.
“Ci siamo solo adeguati alla definizione di caso che è stata aggiornata il 25 febbraio dall’Ecdc – dichiara Giuseppe Ippolito – . Secondo l’Ecdc si è in presenza di un caso sospetto, che deve quindi essere sottoposto a test, quando il paziente presenta una infezione respiratoria acuta e nei 14 giorni precedenti l’insorgere dei sintomi abbia avuto contatti ravvicinati con un caso probabile o confermato di Covid-19, o sia stato in aree di presumibile trasmissione comunitaria dell’infezione. La somministrazione del test a pazienti che non presentano sintomi non risponde quindi alle linee guida dell’Ecdc, e ci porterebbe ad avere risultati non confrontabili con quelli delle altre nazioni“.
Giuseppe Ippolito ha fatto capire che è sbagliato parlare di attenzione posta solo sui casi gravi. Per il momento si è parlato di tutti i casi di contagio da Coronavirus, senza porre l’accento sulla loro condizione generale. Anche perchè è necessario mantenere sempre alta l’attenzione. “Non è esatto parlare di comunicazione solo dei casi clinici più gravi. Più corretto è dire che verranno comunicati soltanto i casi clinici rilevanti rispetto alla definizione di caso stabilita dall’Oms e dall’Ecdc, che oltre agli asintomatici che abbiano avuto contatti “a rischio”, esclude anche chi ha infezioni respiratorie in atto ma senza aver avuto rapporti ravvicinati con casi certi o probabili“.
Ippolito applaude chi ha consentito di dare una mano per effettuare le scoperte messe in atto fino a ora. In ogni caso, la ricerca non può fermarsi qui, tanto che il direttore dello “Spallanzani” sostiene che ci sono tante cose da portare alla luce. “Sappiamo già molto e molto scopriamo tutti i giorni, grazie alla grande mobilitazione scientifica internazionale. Avere isolato il virus allo Spallanzani è fondamentale: ci consente di effettuare molteplici attività di ricerca, dalla messa a punto di nuovi test diagnostici alla valutazione dell’interazione con farmaci, fino alle ricerche sui vaccini. Naturalmente molto c’è ancora da scoprire, a partire dai meccanismi di trasmissione“.
Infine Giuseppe Ippolito svela quali sono stati i farmaci utilizzati per curare i pazienti avuti allo “Spallanzani”. Si tratta di farmaci che sono stati usati per epidemie ben più gravi, persino letali. “Abbiamo usato due farmaci: il lopinavir/ritonavir, un antivirale comunemente utilizzato per la infezione da Hiv e che mostra attività antivirale anche sui coronavirus; e il remdesivir, un antivirale già usato per Ebola, potenzialmente attivo contro l’infezione da nuovo coronavirus. I nostri pazienti sono guariti dalla polmonite e si sono negativizzati rispetto al virus, ma occorreranno studi più approfonditi per verificare se questo approccio terapeutico possa essere esteso“.
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