La battaglia per la verità sull’omicidio di Serena Mollicone è già iniziata. Prima che il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Cassino decida sulle richieste di rinvio a giudizio per i cinque imputati.
La verità sulla morte, 19 anni fa, di Serena Mollicone. Dopo anni di tragedie, depistaggi, rimbalzi di colpe, il 13 marzo si saprà se ci saranno dei colpevoli per la scomparsa di una ragazza che si era solo trovata nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. In udienza preliminare sia il pm Maria Beatrice Siravo sia le parti civili, hanno ripercorso le tappe e gli esiti delle nuove indagini sull’uccisione della studentessa diciottenne di Arce. Si fa luce hanno su intercettazioni e testimonianze pesanti su cui poggia tutta l’inchiesta. A cominciare dal suicidio del brigadiere Santino Tuzi, l’11 aprile 2008. L’uomo, dopo aver parlato con gli inquirenti della presenza della vittima nella caserma dei carabinieri del piccolo centro in provincia di Frosinone il giorno del delitto, prima di essere ascoltato nuovamente si tolse la vita ma le sue dichiarazioni sono state ammesse come prova dell’accusa.
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Il legale della famiglia Tuzi, l’avvocato Elisa Castellucci, davanti al giudice Di Croce ha specificato che le impronte digitali e il Dna del brigadiere, su cui anche di recente c’è stato chi ha cercato di far cadere delle ombre, vennero subito confrontati con le tracce trovate sul corpo della giovane vittima, dimostrando che il militare era completamente estraneo all’omicidio. Al contrario, Tuzi era una vittima, costretto a pressioni ricevute per non fargli raccontare quanto aveva visto nella stazione dell’Arma di Arce. In aula è stata poi evidenziata la telefonata di un dipendente dell’azienda del fratello di Anna Maria Mottola, intercettata il 27 ottobre 2017, in cui l’operaio, a cui dovevano essere prese le impronte dagli investigatori, sosteneva: “Quello lavorava là! Se l’hanno prese sulla macchina ..io comunque le ho portate le macchine! I cartoni li abbiamo maneggiati! Io lo scotch non me lo ricordo, però se io c’ero, io comunque l’abbiamo toccato! Quello stava insieme a noi”.
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Una chiara conferma della presenza di un altro soggetto o più soggetti, rimasti ignoti, che avrebbero contribuito all’occultamento del cadavere, e allo stesso tempo delle responsabilità dei Mottola, dell’allora comandante della stazione, il maresciallo Franco, della moglie Anna Maria e del figlio Marco, accusati dell’omicidio. I carabinieri di Frosinone hanno cercato anche all’estero quanti avrebbero aiutato gli assassini, senza però riuscire a trovare prove schiaccianti. In primo piano anche alcune testimonianze, come quella della barista Simonetta Bianchi, che dichiarò di aver visto la mattina del 1 giugno 2001, presso il Bar della Valle, una ragazza che somigliava a Serena Mollicone insieme ad un ragazzo che somigliava a Marco Mottola. Oltre al brigadiere Tuzi, a parlare della frequente presenza della vittima in caserma è stata poi Rita Torriero, che frequentava Tuzi e che riferì agli inquirenti di aver visto all’interno della stazione la diciottenne almeno due-tre volte.
Serena Mollicone sparì da Arce il 1 giugno 2001 e venne trovata dopo due giorni in un boschetto ad Anitrella, una frazione del vicino Monte San Giovanni Campano. Era senza vita, con le mani e i piedi legati e la testa stretta in un sacchetto di plastica. Nel 2003, con le accuse di omicidio e occultamento di cadavere, venne arrestato Carmine Belli, un carrozziere di Rocca d’Arce, un capro espiatorio, poi assolto dopo aver trascorso da innocente quasi un anno e mezzo in carcere. Le indagini hanno quindi ripreso vigore nel 2008 quando, prima di essere interrogato di nuovo, il brigadiere Santino Tuzi si tolse la vita, secondo gli inquirenti perché terrorizzato dal dover parlare e confermare quanto aveva riferito su quel che era realmente accaduto nella caserma dell’Arma di Arce sette anni prima.
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Alla luce dei nuovi accertamenti compiuti dai carabinieri di Frosinone, dai loro colleghi del Ris e dai consulenti medico-legali, il pm Maria Beatrice Siravo è convinta che Serena il giorno della sua scomparsa si fosse recata presso la caserma dei carabinieri, che avesse avuto una discussione con Marco Mottola, il figlio dell’allora comandante della locale stazione dell’Arma, e che lì, in un alloggio in disuso di cui avevano disponibilità i Mottola, la giovane fosse stata aggredita. La studentessa avrebbe battuto con violenza la testa contro una porta e, credendola morta, i Mottola l’avrebbero portata nel boschetto. Vedendo in quel momento che respirava ancora, l’avrebbero soffocata e sarebbero iniziati i depistaggi. Una ricostruzione dei fatti che ha portato il magistrato a chiedere il rinvio a giudizio dell’ex comandante Franco Mottola, del figlio Marco e della moglie Anna Maria, con le accuse di omicidio aggravato e occultamento di cadavere, dell’appuntato scelto Francesco Suprano, accusato di favoreggiamento personale in omicidio volontario, e del luogotenente Vincenzo Quatrale, accusato di concorso in omicidio volontario e istigazione al suicidio del collega brigadiere Tuzi.
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