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Cronaca

L’ospedale di Codogno: “Feriti dalle parole del premier, non le meritiamo”

Il primario dell’ospedale di Codogno scrive una lettera insieme agli altri medici. “Applicati tutti i protocolli, alcuni di noi ora sono infetti”, scrive Giorgio Scanzi.

Arriva un nuovo attacco nei confronti di Giuseppe Conte in tema Coronavirus. Poche ore fa è arrivata l’invettiva da parte del presidente delle Marche all’indirizzo del premier. Ora a sollevare il polverone ci pensano i medici che operano presso l’ospedale di Codogno. In questa struttura si sono registrati i primi casi di contagio del Covid-2019, con quello che sembrava essere il “paziente zero”. Ma ci ha pensato Giorgio Scanzi, il primario di Medicina del nosocomio di Codogno, a scatenare la polemica nei confronti di Giuseppe Conte.

Lo stesso primario ha fatto notare che le critiche fatte dal presidente del Consiglio sono del tutto immeritate. Anche perchè tutti i medici hanno fatto ciò che era nelle loro facoltà per tenere la situazione sotto controllo. “Abbiamo fatto il nostro dovere e abbiamo la coscienza a posto. Dal primo istante dell’emergenza non abbiamo lasciato i nostri ammalati nemmeno per un istante. Alcuni di noi, tra medici e infermieri, sono infetti e lottano adesso contro il morbo. Non siamo eroi e non pretendiamo gratitudine per il nostro lavoro: ma ascoltare dalle massime cariche dello Stato certe parole, che moralmente uccidono più del virus, fa male e ci umilia“.

Scanzi sottolinea che a Codogno tutto è stato svolto seguendo le indicazioni ricevute dall’alto. Tra i protocolli dell’Oms e quelli dell’Istituto superiore di Sanità. Una serie di operazioni che probabilmente, in altri ospedali d’Italia, sarebbero avvenute in maniera fallace o più lenta. “Nessun ospedale d’Italia una settimana fa si sarebbe comportato in modo diverso. Abbiamo applicato protocolli e direttive di Istituto superiore di sanità, Oms e ministero della Salute. Nessuno di loro avrebbe suggerito tampone e isolamento per un italiano con i sintomi classici dell’influenza, non reduce dalla Cina e che non dichiara contatti con persone provenienti da là. Appena il quadro è cambiato, il protocollo è stato seguito. Il contagio purtroppo era già esploso da giorni, al punto da costringerci a chiudere il pronto soccorso“.

Il pronto soccorso dell’ospedale di Codogno è stato prontamente chiuso – meteoweek.com

La lettera dei medici di Codogno

La cartella clinica riporta che il “paziente uno” si è sentito poco bene venerdì 14 febbraio – si continua a leggere dalle parole del primario Scanzi – . Da Codogno è andato a farsi visitare a Castiglione d’Adda. Il suo medico Luca Pellegrini, positivo e ora ricoverato, gli ha prescritto farmaci contro una sindrome influenzale. Domenica 16 gli è salita la febbre e si è presentato in ospedale qui a Codogno. Non ha indicato collegamenti, nemmeno indiretti, con la Cina. La moglie, incinta, era asintomatica e stava bene“.

Lui era in codice verde – prosegue Scanzi che fa eco alla voce dei suoi colleghi – : abbiamo aggiustato la terapia e l’abbiamo dimesso. Si è ripresentato mercoledì 18, la febbre non scendeva e precauzionalmente è stato ricoverato in osservazione in medicina. Solo giovedì 19, quando sono esplosi i problemi respiratori, la moglie si è ricordata degli incontri con un amico italiano rientrato dalla Cina il 21 gennaio. Il protocollo coronavirus, tampone più isolamento, è scattato immediatamente“.

Proseguendo nell’analisi dei movimenti del paziente zero, Scanzi fa notare che forse qualcosa non è andato. Ma il primario di Medicina dell’ospedale di Codogno fa notare che eventuali falle non possono andare a carico di chi si occupa di curare la gente. “Per un paio di settimane quel ragazzo già infetto ha girato liberamente dentro e fuori il Lodigiano. Ha incontrato più persone lui in quei giorni, tra lavoro e sport, di me in sei mesi. Nessun ospedale poteva più contenere l’epidemia. Una falla forse si è aperta dopo la prima diagnosi. Tra giovedì pomeriggio e venerdì l’ospedale infettato non è stato chiuso. A personale e degenti non sono state fornite mascherine. Gli ambienti non sono stati disinfettati. Non erano disponibili tamponi per tutti. L’epidemia ha potuto moltiplicarsi. Simili interventi non sono però compito di chi cura i malati“.

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