Parasite | la vittoria agli Oscar è la consacrazione del cinema coreano

Ancora si fatica a crederlo: Parasite è il primo film in lingua non inglese a vincere come miglior film agli Oscar. Ed entra direttamente nella storia del cinema con quattro statuette, quelle più importanti.

Oltre all’inaspettata vittoria come miglior film, al film sudcoreano è infatti anche andato il premio per la miglior regia (per Bong Joon-ho) per il miglior film internazionale (l’ex “film straniero”), oltre che quello per la migliore sceneggiatura originale.

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Parasite dopo Pasolini

Dopo il conturbante Teorema di Pier Paolo Pasolini e dopo la “crazy family” di Gakuryū Ishii, superato l’approfondimento psichiatrico del “corpo estraneo” che si inserisce in un contesto famigliare che non gli appartiene effettuato da Takashi Miike con il suo Visitor Q (in cui l’invasore era, per la prima volta, un elemento che rinsaldava i rapporti di coppia e non li disintegrava), adesso i “parassiti” di Bong Joon-ho non hanno alcuna perversione, intesa come tendenza a rovesciare un ordine delle cose già prestabilito. Sono quindi parassiti obbligati, che possono sopravvivere solo sfruttando altri organismi viventi. Incapaci quindi di resistere autonomamente nell’ambiente esterno a loro ostile (la famiglia povera, quella dei Kim, che truffa quella ricca dei Park, che però a sua volta deve contare sulla prima per lo svolgimento delle più banali mansioni quotidiane).

Gli spazi del film

Come se fosse un cartone animato, il racconto di Parasite sembra essere stato costruito attorno a delle primordiali idee visive, dalle quali è poi nato tutto il resto. In questo caso l’intuizione da cui prende il via la narrazione riguarda gli ambienti nella quale questa si svolge. L’umile casa dei Kim è interrata, ma con una grande finestra dalla quale entra la luce del sole durante la mattina (come a volerne beneficiare al massimo, nei momenti in cui questa si rende disponibile). Da sola questa conformazione degli spazi spiega lo stato dei personaggi: in costante pericolo di sprofondare, ma mossi da una genuina speranza di rivalsa, una convinzione in un futuro radioso che potrebbe permettere loro di “elevarsi” (letteralmente). Al contrario, la lussuosa villa dei Park è una casa che contempla se stessa (geniale l’idea di concepire una enorme finestra, le cui dimensioni ricordano quelle di alcuni schermi cinematografici, dalla quale guardare il giardino della propria casa come se questo fosse qualcosa di esterno da contemplare e non parte integrante dell’ambiente). Persino i quadri con cui viene arredata la casa ci comunicano l’autoreferenzialità di una classe sociale che pensa solo a sé e vive in una bolla (i dipinti sono quelli realizzati dal figlio, considerato ovviamente un prodigio dai suoi genitori).

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La regia

Il lavoro fatto sulle scenografie non è un lavoro “di contorno” e di perfezionamento, ma qualcosa di essenziale alla riuscita stessa del film (inspiegabile, in questo senso, la mancata vittoria nella specifica categoria degli Oscar). Entrambe le case del film sono state costruite appositamente per Bong Joon-ho (addirittura per quella dei Kim è stato realizzato anche il tratto della strada sulla quale si affaccia la loro finestra) e la disposizione delle stanze, delle scale e del mobilio è stata pensata solo dopo aver studiato le inquadrature necessario. Tutto è stato costruito da zero per servire una precisa idea di regia.

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