A distanza di ben 17 anni dalla sua realizzazione e sulla scia dell’oramai travolgente successo ottenuto dal coreano Bong Joon-ho con Parasite (vincitore della Palma d’Oro a Cannes 2019), arriva nelle sale italiane Memorie di un assassino (del 2003), un thriller sociale che indaga nelle torbide atmosfere di uno stato inadempiente, stolto, e iper-militarizzato.
Gyeonggi, 1986. In una piccola comunità della campagna coreana, il brutale stupro e assassinio di una ragazza, cui poi ne faranno seguito altri, apre il varco a una scia di sangue che mette in moto le indagini della polizia locale, inesperta e inadeguata. A suon di violenza fisica e psicologica, i due poliziotti incaricati cercheranno infatti (invano) di costruire una pista dal nulla, di far emergere una realtà indiziaria che non esiste, di estorcere confessioni e chiudere il caso con qualunque mezzo.
E così la giostra facile di presunta colpevolezza passerà in rassegna i profili più deboli e pregiudizialmente coerenti al reato (un ragazzo ritardato, un pervertito sempliciotto) per infilare una pista credibile, ma sempre senza riuscirvi.
Memorie di un assassino, e il “male” che pervade tutto
E infatti, fatta eccezione per la violenza perpetrata (da un lato e dall’altro), nulla sembra portare davvero a una pista percorribile, e nemmeno il giovane investigatore “studiato” e illuminato venuto da Seoul pare poter dare alcuna reale svolta agli indagini. E mentre le serate di pioggia, anticipate sempre da quella stessa canzone alla radio – come farà notare la poliziotta quasi ignorata solo perché donna – e di omicidi si susseguono, emerge con sempre maggiore prepotenza l’inadempienza societaria, l’incapacità umana, e un’esistenza grigia immersa in uno stato di violenza e malessere talmente permeanti da rendere impossibile discernere tra buoni e cattivi, tra bene e male.
Ripescaggio di serie A, designato Film della Critica e in uscita in sala grazie ad Academy Two, Memorie di un assassino dell’oramai celebre regista coreano Bong Joon-ho (The Host, Snowpiercer, oltre al già citato Parasite) è un thriller torbido che scava nella miseria umana e alla ricerca di un colpevole che in quanto “uomo comune” può essere tutti e nessuno.
E in questa indagine portata avanti con pochi mezzi, molto pregiudizio, e troppa violenza, il filo del film alla fine non insegue più la pista delittuosa ma la grettezza di una società sciatta, iper-militarizzata e fondamentalmente incapace di restituire il male alla sua identità, perché essa stessa contaminata da un malvagità talmente diffusa da essere inscindibile da tutto il resto. In breve, il volto del male che ingloba e offusca tutto, vittime e carnefici, presunti buoni e potenziali cattivi.
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Memorie di un assassino, il volto empio dell’uomo comune
E in perfetta linea con la matrice autoriale di questo regista, pirandelliano e machiavellico fin nel midollo, Memorie di un assassino prende a prestito il thriller con sfumature horror per disegnare – con scrittura pungente e una fotografia perfettamente plumbea – un cinema sociale che parla di stereotipi, di frustrazioni, inadeguatezza, e che (proprio come in Parasite) integra il grottesco e l’impietoso per fare una radiografia umana in cui nessuno si salva, e dove un’azione del male è solo un tassello di sangue che poi ne produce a cascata altri mille. Polizia gretta, donne vittime o escluse, violenza, ottusità, Memorie di un assassino si addentra con senso critico e acume nel cunicolo buio di un delitto che pare rappresentare il male, ma che poi altro non è che espressione “comune” di un vivere empio, e dove il male (in fondo) può nascondersi – perfettamente mascherato – dietro al volto di un qualsiasi “uomo comune”.