Si è conclusa l’indagine sul «Teppafest» del 20 aprile 2018, un rave mai autorizzato al quale parteciparono non meno di cinquecento persone.
Un evento in cui alcool e irregolarità fecero da padroni: ventidue ragazzi, fra i venti e i trentacinque anni, sono indagati per il reato di violenza privata.
I fatti
Si sarebbero posizionati «avanti la fotocellula delle barre a livello del cancello d’ingresso ostruendo il funzionamento dei sensori delle fotocellule impedendone la chiusura immediata e ciò al fine di consentire l’ingresso non autorizzato di due furgoni contenenti il materiale necessario all’approntamento della festa non autorizzata, materiale che poi veniva anche da altri soggetti scaricato dai camion per l’uso previsto».
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Scrive così Erminio Amelio nell’avviso di conclusione delle indagini. Si tratta di un passaggio importante che assolve i vertici universitari dall’accusa di «tolleranza» nei confronti di queste manifestazioni: di fatto il regolamento prevedeva la chiusura degli accessi al piazzale della Minerva e dunque si dovette ricorrere a un trucco per permettere il viavai di veicoli necessario ad allestire la festa. Da qui l’accusa di violenza privata: si forzò, in sostanza, la volontà di istituzioni e vigilanza pur di raggiungere lo scopo, l’allestimento del rave.
Giovani ma davvero ben organizzati
Gli approfondimenti della Digos hanno fatto emergere un’organizzazione fortemente strutturata, ben lontana da normali ragazzi. Una squadra era addetta alla neutralizzazione delle fotocellule del cancello automatico, altri hanno preso parte, con compiti specifici, alla realizzazione dell’evento.
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Per cominciare alcuni bloccarono con una catena munita di lucchetto «la porta di accesso all’ingresso pedonale dell’università al fine di impedire la chiusura all’orario previsto delle 21,00». Altri si occuparono dell’allestimento abusivo del palco. Altri ancora del marketing, per così dire, collegato alla festa: «i manifesti nei muri perimetrali dell’ateneo per pubblicizzare l’inizio del Teppafest».
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Chi si occupò di caricare i fusti di birra nei furgoni e di distribuirli in prossimità del palco e chi si posizionò in modo da somministrare le bevande. Chi, infine, collocò «un banchetto davanti all’ingresso principale dell’ateneo per regolare e controllare il flusso di entrata e in uscita delle persone che avevano pagato il biglietto di ingresso di 3 euro».
Un format riproposto
Un modello organizzativo efficace e dunque esportato in seguito, un vero e proprio format. Fino alla festa di fine giugno 2019 nella quale perse la vita il ventiseienne Francesco Ginese, trafitto mentre scavalcava un’inferriata per partecipare al rave. «Siamo tranquilli — dice l’avvocato Francesco Mazara Grimani che assiste uno degli indagati —pensiamo di poter dimostrare l’estraneità del nostro assistito alle accuse». L’inchiesta era partita dalla denuncia del rettore Eugenio Gaudio, oggi vicepresidente della CRUI, che all’indomani di alcuni party si era detto preoccupato: «Nessun atteggiamento permissivo. Dispiacciono questi eventi: dover ricorrere a superalcolici o altro per divertirsi non è bello e forse ci sono anche infiltrati dall’esterno».