A dieci anni di distanza, Avatar, il film campione di incassi di James Cameron, lascia una eredità molto meno importante di quanto ci si sarebbe aspettato. Il film che voleva cambiare il cinema ha avuto un impatto minimo: celebrato e poi immediatamente dimenticato. Adesso la sfida di Cameron è convincere il pubblico a tornare in sala.
Tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, James Cameron, già considerato il re Mida di Hollywood, reduce da successi giganteschi come quelli di Terminator 2 e Titanic, riuscì a superarsi: per mesi non si è parlato altro che del suo Avatar, salutato con interesse dalla critica specializzata (soprattutto per la sua capacità di spingersi in territori non ancora esplorati) e amato dal pubblico. Che lo avrebbe però presto dimenticato.
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Avatar, l’eredità di James Cameron
Se il metro attraverso il quale misurare l’importanza di un film è quello dei cambiamenti apportati all’industria cinematografica, allora Avatar è stato senza dubbio un fallimento: il 3D è stato marginalizzato nel corso degli anni, sono spariti i film che lo utilizzano come elemento costitutivo e oggi di quella sperimentazione iniziata da Cameron non rimane quasi nulla (paradossalmente, il 3D è stato utilizzato in maniera molto più seria dal cosiddetto cinema d’autore, da Ang Lee a Wim Wenders, passando per Andrew Dominik, piuttosto che dai grandi studi di produzione americani).
Nonostante il tempo abbia lasciato un ricordo non troppo positivo del film nella mente degli appassionati, i record di incassi registrati (77 milioni nel primo weekend e 75 nel secondo, ancora oggi un record se non si considerano film appartenenti a franchise già avviati) non possono essere frutto esclusivamente di una intelligente campagna marketing (che sicuramente ci fu e che spinse molto sulla “rivoluzione del 3D”). Avatar fu infatti apprezzatissimo anche in territori che all’epoca non erano ancora considerati appetibili dalle produzioni americane (Cina, Mongolia).
Avatar, il progresso tecnologico
Pur basandosi su archetipi narrativi vecchissimi (quelli riguardanti la figura del selvaggio, usati da secoli in letteratura e nella cinematografia ad essa ispirata), Cameron riuscì a creare un film che parlava soprattutto attraverso la messa in scena, che trovava le cose da dire nella sua magniloquenza e nell’impianto visivo, mettendo su schermo qualcosa che non si era mai visto prima. Nulla di effettivamente nuovo o spiazzante, ma il frutto di una felice contaminazione che mescolava tantissimi elementi già conosciuti senza per questo risultare confuso o posticcio. Merito soprattutto della tecnologia utilizzata, che soprattutto per il motion capture segnò nuovi standard impossibili da ignorare per i film che sarebbero venuti dopo.
La sperimentazione tecnologica di Cameron, come ben si sa, non si è mai fermata. Non solo il regista ha continuato a perfezionare la sua tecnica in vista dei sequel già annunciati di Avatar, ma ha messo a disposizione il frutto del suo lavoro anche per altre produzioni. Alita – Angelo della Battaglia, scritto da Cameron ma diretto da Robert Rodriguez, è un esempio perfetto di ciò: il livello qualitativo del motion capture, curato dagli stessi che si occuparono di Avatar e si occuperanno dei sequel, era talmente alto che persino un personaggio smaccatamente “cartoonesco” come quello di Alita, ragazza dagli occhi enormi come in un manga, riusciva a sembrare credibile nel contesto e mai davvero “artificioso”.
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Avatar, veicolo di una nuova sensibilità
La profondità tridimensionale e la qualità del motion capture non sono elementi marginali nel cinema di Cameron, ma quelli attraverso i quali passa l’efficacia della narrazione, addirittura l’empatia dello spettatore con i personaggi (che può esserci solo se questi sono credibili, visivamente innanzitutto e solo successivamente per come sono scritti). Come Jurassic Park, che cercava di rendere su schermo lo stupore del suo stesso pubblico, anche Avatar si divertiva a mostrare la meraviglia provata da personaggi che, come gli spettatori, scoprivano per la prima volta un mondo a loro sconosciuto.
Il film di James Cameron è passato (quasi) senza lasciare traccia, ma è indubbio che all’epoca il suo enorme successo fu dovuto a delle intuizioni per nulla scontate: modellare la narrazione attorno ad una metafora ecologista (semplice, ma sentita) e rendere la fantascienza veicolo di una nuova sensibilità, parlando (tra le altre cose) di amore interrazziale e rispetto della diversità.