Simone Moro e la sua compagna di scalata Tamara hanno rischiato di morire cadendo in un crepaccio sull’Himalaya. “Tutto è bene quel che finisce bene”. Il racconto dello scalatore.
Simone Moro sorride ora che può raccontarla la sua spaventosa avventura sul maestoso Himalaya. Nonostante sia abituato a qualsiasi tipo di problema e pericolo, lo scalatore 52 enne questa volta se l’ha vista davvero brutta e insieme a lui la compagna di tante avventure Tamara Lunger. “Senza stare a girare troppo attorno al concetto – scrive Moro su Facebook – ieri siamo arrivati veramente a un soffio da un epilogo tragico e funesto sia per me che per Tamara.
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Moro quindi racconta: “Eravamo intenzionati a passare due notti sulla montagna, raggiungere campo 1, dormire lì e il giorno dopo dirigerci verso campo 2. Eravamo finalmente fuori dalla cascata di ghiaccio, avevamo superato anche l’ultimo grosso crepaccio e procedevamo sul plateau sommitale. Sempre legati perché sapevamo che i crepacci erano sempre in agguato e antenne sempre dritte ma il morale alto e la soddisfazione di aver superato tutto Il labirinto di ghiaccio grande. Ma la giornata non era finita e quello che ci aspettava terribile”. Il Racconto dello scalatore continua. “Approcciando un crepaccio mi sono messo come sempre in posizione per assicurare Tamara che per prima lo ha attraversato e si è poi portata in zona di sicurezza, 20 metri oltre il crepaccio. Poi è venuto il mio turno e dopo una frazione di secondo, mi si è aperta una voragine sotto i piedi e sono precipitato.
“Tamara – continua Simone – ha subìto uno strappo tanto violento che è letteralmente volata fino al bordo del crepaccio e io in caduta libera a testa in giù per 20 metri sbattendo schiena gambe e glutei sulle lame di ghiaccio sospese nel budello senza fine in cui continuavo a scendere. Largo non più di 50 cm, tutto buio”. Sopra Tamara aveva la corda avvolta intorno alla mano e gliela stringeva come una morsa e le provocava dolori lancinanti e insensibilità. Io ero al buio e lei lentamente scivolava sul ciglio del crepaccio. Il tutto complicato dal fatto che lei aveva le racchette da neve ai piedi. Sono riuscito con una mano a mettere un primissimo precario ancoraggio e, pur sentendomi lentamente scendere verso l’abisso ho avuto la lucidità di prendere la vite da ghiaccio che avevo all’imbrago e fissarla nella parete liscia e dura del crepaccio. Quella vite ha fermato lo scivolamento mio e la probabile caduta nel crepaccio di Tamara.
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“Da lì – chiude il racconto – senza entrare nei dettagli, ci siamo inventati il modo di uscire. Quasi due ore dopo. Contorsionismi e mille sforzi mi hanno permesso al buio e schiacciato tra due pareti larghe 50 cm di risalire in piolet traction tutto il crepaccio.
Tremolante e con mille contusioni ho abbracciato Tamara che piangeva anche dal dolore alla mano”. ‘Tutto è bene quel che finisce bene’.