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Cinema

Judy, la recensione del film con Renée Zellweger

È innegabile che sia Renée Zellweger il vero motore di Judy, biopic sulla cantante e attrice Judy Garland diretto da Rupert Goold: un film che soffre di una impostazione smaccatamente teatrale ed è salvato dalle intuizioni della sua interprete principale.

Judy, la recensione del film con Renée Zellweger

Questo nuovo film sulla indimenticabile Dorothy de Il Mago di Oz è tratto da una pièce teatrale e si vede (nello specifico da End of the Rainbow di Peter Quilter). Il lungometraggio, infatti, adotta una narrazione che si addice molto di più al palcoscenico che allo schermo cinematografico. Lo si percepisce nei dialoghi, nella caratterizzazione dei personaggi, nella maniera in cui vengono collegate le scene.

Ma come sempre più spesso avviene nei biopic moderni (rivoluzionati per sempre dal The Social Network di David Fincher), anche Judy pone lo sguardo su di un periodo limitatissimo nel tempo (ma emblematico) della carriera della protagonista, mostrandola al pubblico quando già il successo è andato via.

La Judy Garland di Renée Zellweger non è l’astro nascente coccolato da Hollywood (accusata invece di aver usato e gettato via la Garland come fu fatto con Marylin Monroe) ma quella dei concerti al Talk of the Town di Londra nel 1969, in cerca di soldi facili e terrorizzata dall’idea di perdere la custodia dei suoi figli a causa dei problemi economici. Il film ce la fa conoscere quando già nessuno è più disposta ad ingaggiarla, come aveva fatto qualche anno fa Susanna Nicchiarelli nel bellissimo film dedicato alla figura di Nico, la bellissima musa di Lou Reed ed Andy Warhol raccontata quando ormai sovrappeso e disposta ad esibirsi anche nelle peggiori balere.

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Judy, una drammatica accusa a Hollywood

Proprio come la Christa Päffgen del film della Nicchiarelli, che ci rivelava la sua umanità fragile (decadente ma anarchica) in una spaghettata nel cuore della notte, anche la Judy Garland di Goold approda di notte nella cucina di suoi due ammiratori inglesi, prima di scoppiare a piangere al pianoforte. L’ambiente domestico, perduto e poi ritrovato, anche solo per un attimo, è dove si svelano le fragilità della persona, dove emergono le sue mancanze, ma anche le sue aspirazioni disattese e la sua voglia di rivalsa.

Senza più una casa dove dormire, cacciata anche dall’ultimo rifugio a sua disposizione (un albergo con parecchi debiti accumulati) e ormai alla “fine del suo arcobaleno”, vediamo Judy Garland in un momento che è allo stesso tempo transitorio e definitivo. A Rupert Goold non interessa operare una “sintesi”, ma interpretare ogni scena come se fosse una performance, un atto unico e irripetibile in grado di esistere anche senza essere inserito in un contesto narrativo più ampio (anche questo uno stratagemma ereditato dal teatro ma che è funzionale a rendere su schermo le sfaccettature di una persona ormai abituata a vivere il singolo momento).

Judy, alla fine dellarcobaleno

A compensare le carenze di una sceneggiatura poco raffinata, che non lavora in maniera sottile sui sentimenti dei personaggi ma invece li esibisce sempre in maniera chiara, c’è Renée Zellweger, qui più che mai in grado di cambiare improvvisamente il tono di una scena, di utilizzare una determinata emozione per comunicare quella opposta. È grazie a lei, ad esempio, se i pochi momenti di commedia che attraversano il film feriscono più di quelli scritti e pensati per cercare la compassione nel pubblico.

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