Roberto Cannavò sta scontando l’ergastolo per associazione mafiosa e 13 omicidi, in un’intervista al Corriere della Sera ha raccontato l’omicidio Parisi, un 18enne catanese rimasto vittima nel ’91 di un suo agguato.
Ha 53 anni è originario di Catania e da due mesi è in libertà vigilata, Roberto Cannavò, ex killer dei carcagnusi, ha raccontato la sua storia in un’intervista al Corriere della Sera, ma soprattutto di un episodio in particolare. Era il 1991 quando sbagliò bersaglio e colpì mortalmente il 18enne Filippo Parisi, un ragazzo che con la mafia non aveva niente a che vedere.
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“Stava aprendo un panificio quando sono arrivato lì vicino. Ho sparato a uno che dovevo ammazzare, ma un proiettile è rimbalzato e ha colpito lui. Era marzo del 1991, a Catania. Ho pianto tantissimo per quel ragazzo. È uno dei miei rimorsi piu grandi. L’ho pensato ogni santo giorno per anni e ancora adesso, soprattutto di notte, ricordo spesso quella scena. Vedo lo strazio di sua madre che dopo, negli anni del processo, veniva in aula con la fotografia di Filippo sul petto. Mi guardava e io facevo pure lo spaccone. Se ci ripenso… Non avevo ancora capito che cosa fosse il dolore, non avevo ancora imparato a gestire i miei impulsi peggiori, a distinguere il bene dal male. Non so cosa darei per tornare indietro e non essere quello che sono stato”.
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Il bilancio è drammatico perché per mano di Cannavò sono morte più di 10 persone: il ricordo più intenso va a Parisi in particolare, ma non solo: “Quel ragazzo era innocente, completamente fuori dal nostro schifo. Non c’entrava niente con noi e la nostra guerra tra clan. Quindi la mia coscienza davanti a lui è stata disarmata fin dal primo momento. Con gli altri c’è voluto più tempo prima che li sentissi pesare sulla coscienza. Ricordo un ragazzo di 19 anni, in uno scantinato. Quelli del mio gruppo mi hanno portato lì che lo stavano interrogando. Era uno che aveva a che fare con un gruppo rivale, volevano che dicesse dov’era nascosto uno. Lui piangeva, supplicava di lasciarlo andare, giurava di non sapere. Io mi sono messo a parlare con il capo dei torturatori, un po’ in disparte. Ma l’ho visto morire strangolato. Ricordo che sono uscito e mi veniva da vomitare. Era feccia e io ero talmente immerso in quella spazzatura. La maggior parte di quelli che ho ammazzato non li conoscevo nemmeno. L’ultimo, a Torino, me lo ha indicato con un dito un palermitano“.