Presentato al Toronto Film Festival e alla 37esima edizione del Torino Film Festival, Jojo Rabbit è il nuovo incredibile lavoro firmato da Taika Waititi (Thor: Ragnarok, The Mandalorian). Ecco la nostra recensione.
Johannes Betzler, detto Jojo (interpretato dal sorprendente Roman Griffin Davis), ha dieci anni e vive con la mamma (Scarlett Johansson) in un piccolo paesino non ben definito dal punto di vista geografico, durante gli ultimi anni dell’occupazione nazista. Iscritto alla Gioventù hitleriana ed accompagnato da un amico immaginario con le fattezze del Fuhrer, il bambino scopre un giorno che nella soffitta di casa sua si nasconde una ragazza ebrea e decide di indagare.
Rispetto al romanzo da cui trae origine, Come semi d’autunno (Caging Skies) di Christine Leunens, la pellicola esibisce una leggerezza e una poeticità straordinarie, considerati soprattutto gli argomenti che affronta. Dal Nazismo alla resistenza, dalla violenza alla vergogna, in Jojo Rabbit si possono trovare una carrellata di suggestioni che permettono di addentrarsi nella vicenda in maniera naturale, istintiva, di pancia, lasciando fuori quella che è la parte più razionale. Ma sia chiaro, come in tutte le buone favole che si rispettino, anche in questo caso dietro alla semplice (ma non troppo) facciata di racconto, si cela tutta la drammaticità legata all’esistenza.
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Ecco allora che il tocco di Waititi si fa sentire. Cristallino, potente, originale. Sua è la scelta di dare voce e corpo allo stesso Adolf Hitler – non presente nel testo letterario – di cui Jojo è uno strenuo sostenitore, mettendolo in ridicolo, esaltandone i lati buffi e permettendo una sorta di distacco dalla realtà. Si sorride del suo accento, delle sue uscite di scena a dir poco acrobatiche, delle sue espressioni strampalate; eppure è l’incarnazione di quella che è probabilmente la pagina più buia nella storia dell’intera umanità.
Non a caso per il cineasta neozelandese è stato complicato trovare qualcuno che potesse farsi carico di questa dualità, forse mai messa in risalto in modo così diretto se non da Charlie Chaplin ne Il Grande Dittatore, motivo per cui alla fine la scelta è ricaduta su se stesso. Perfetto in ogni minima sfumatura, a tratti disturbante ma sempre esilarante, Waititi nei panni del Fuhrer è uno dei personaggi che entra a pieno diritto negli annali del Cinema. E vi resterà.
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Dal rapporto tra il piccolo protagonista ed il suo “amico immaginario” si evince anche tutto il contesto in cui si sviluppa la narrazione: Jojo è un bambino profondamente solo, a cui manca la figura paterna e che ha sopperito alla perdita con una serie di uomini dalla dubbia moralità (almeno in apparenza), ma senza dubbio di polso. Tra questi, merita una menzione a parte Sam Rockwell, nei panni del Capitano Klenzendorf, un ufficiale dell’esercito costretto a stare lontano dal fronte in seguito a una grave ferita in battaglia: a lui si deve il passaggio di Jojo da soldato semplice a spia tra le fila nemiche, passaggio che segnerà anche la fondamentale presa di coscienza per il bambino, facendogli abbandonare quell’ultimo briciolo di innocenza infantile e obbligandolo a dover fare i conti con una realtà decisamente più grande di lui.
La scoperta di Elsa (Thomasin McKenzie) porta Jojo a porsi delle domande, a rimettere tutto in discussione, compreso il suo stesso affetto e la stima nei confronti della mamma, macchiatasi ai suoi occhi di una colpa quasi mostruosa. Attraverso gli interrogativi e i dubbi affrontati dal protagonista arriviamo a percepire solo la punta di un iceberg che simboleggia un periodo storico spaventoso, inimmaginabile ed indescrivibile.
È così che Waititi colpisce dritto al cuore, utilizzando la lente della commedia, che via via cede il passo al vero e proprio dramma, per mostrare tutta la bruttura e la brutalità messe in campo, contrastate dall’altra parte da un’umanità fuori dal comune, di quelle che non se ne vedono più tante in giro, forse purtroppo estinte, ma che gettano una luce di speranza ed una scintilla di cambiamento.
L’attenzione riservata a dettagli quali scarpe, disegni, costumi, insieme con un utilizzo antitetico e geniale di musica allegra associata ad immagini di tutt’altro genere – si veda anche l’apertura sulle note dei Beatles, mentre sullo sfondo si susseguono azioni violente – fa sì che la pellicola crei un cortocircuito di emozioni da cui è difficile esimersi.
L’universalità della storia e il coraggio di affrontarla in una simile maniera evidenziano invece la splendida personalità di un cineasta come Waititi, intimamente colpito dalle vicende narrate e abilissimo nel restituire quella magia e quella bellezza, così semplici eppure ardue da scovare, delle piccole cose. Come per esempio le farfalle nello stomaco.
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